Il pugno chiuso

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Sarò un vecchio nostalgico, ma vedere un leader europeo esibire il pugno chiuso per salutare la folla festante dopo un successo elettorale, mi fa ancora impressione.
È il gesto di chi non ha vergogna delle proprie radici. Anzi, le rivendica. Le sbatte in faccia ai moderati dalle mille casacche.
Il pugno chiuso viene da lontano. Nel corso del Novecento è diventato uno dei simboli più evocativi: innalzato dai militanti dei partiti comunisti, così come dai lavoratori del movimento operaio statunitense nel 1917.
Dal Rotfrontkämpferbund, la milizia paramilitare del partito comunista tedesco negli anni Venti, fino ai combattenti nella Guerra civile spagnola, a metà degli anni Trenta.
Per non parlare naturalmente di tutta l’iconografia sovietica.
Un’altra tappa caratterizzante per la diffusione del pugno alzato è quella che vede protagonisti i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta.
Su tutti: il movimento femminista americano e quello per il riscatto dei neri.
L’immagine che farà il giro del pianeta è ovviamente quella che ritrae Tommie Smith e John Carlos, con il pugno nel guanto nero, durante la premiazione dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, l’anno della Contestazione.
Non meno significativo il pugno chiuso esibito da Nelson Mandela il giorno della sua scarcerazione.
Melenchon non nasconde la mano, perché nella sua idea di Sinistra c’è ancora qualcosa di orgogliosamente antico. Non lo sentirai mai dire: «Non siamo né di destra né di sinistra».
In quel pugno chiuso alzato in cielo c’è un irrefrenabile bisogno d’identità e di appartenenza. La materia prima che più scarseggia nella Sinistra del Duemila.
Verrebbe da dire, per concludere, come Mario Brega in versione Un sacco bello: « … Io mica so comunista così, sa. So’ comunista così!».
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Alfredo Facchini
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