Il Giappone “americano” nelle Filippine a sfidare nuovamente la Cina

DI PIERO ORTECA

REDAZIONE

 

Dalla redazione di REMOCONTRO –

Firmato un clamoroso “accordo reciproco di difesa” tra Filippine e Giappone, che riporta nello sterminato arcipelago asiatico le truppe del Sol Levante. Tornano soldati che nella guerra mondiale erano il simbolo del più aggressivo e feroce militarismo imperialista. Ma i tempi cambiano e, oggi, l’unica cosa immutata sono le munitissime basi americane ricostruite nelle Filippine.

Ottobre 1944 Filippine occupate dal Giappone, sbarco del generale Usa MacArthur

“Cordone americano” nell’Indo-Pacifico contro la Cina

Gli Stati Uniti, decisi a controllare la crescita della potenza cinese, chiedono a tutti gli alleati di scendere in campo. E obbedendo a convenienza, il Ministro degli Esteri nipponico, Yomo Kanikawa, e quello della Difesa filippino, Gilberto Teodoro, hanno siglato un patto che prevede lo schieramento di unità da combattimento giapponesi «per esercitazioni a fuoco vivo». Un salto di qualità importante (e grave per i cinesi), nell’intesa trilaterale Usa-Filippine-Giappone, che finora era stata poco esibita. Forse per non fornire a Xi Jinping altri motivi per fare alzare la tensione nel Mar cinese meridionale. Anche se, a Pechino, il clima anti-filippino si è già rafforzato da un bel pezzo. Da quando il Presidente Marcos Jr. ha dato concesso la moltiplicazione della presenza militare americana nell’arcipelago. Delle quattro concessioni, tre guardano verso Taiwan e l’ultima è piazzata proprio in direzione delle contestatissime isole Spratly.

Difesa o provocazione?

Le basi Usa, così vicine alla «provincia separata», come viene definita Formosa, nel lessico politico ufficiale della Repubblica popolare, percepite dalla leadership cinese «un’arma puntata contro». Secondo Wu Shicun, un esperto del think tank National Institute for South China Sea Studies, «l’accordo abbassa la soglia per l’ingresso delle ‘forze di autodifesa’ giapponesi (JSF) nel Mar Cinese meridionale nelle basi militari isolane e consentire al Giappone di fornire alle Filippine armi, equipaggiamento e addestramento del personale». Un bell’aiuto all’ex nemico americano. Tristi eredità, come i guai di confine marittimo nel Mar Cinese meridionale, figli di colonizzazione e successiva decolonizzazione postbellica. Atti troppo spesso di forza, destinati ad alimentare tensioni future garantite e crescere.

Rischio radicalizzazione dello scontro

Nel lungo periodo, la radicalizzazione dello scontro innescherà solo un gioco di reazioni e controreazioni. Una escalation che potrebbe diventare incontrollabile. Il Pentagono e il Dipartimento di Stato Usa, già da tempo hanno elaborato una strategia precisa: condividere con i Paesi amici della sterminata area, che abbraccia un quarto del pianeta, l’onere di ‘contenere la Cina’. Questa vera e propria dottrina geopolitica, si applica arginando, diplomaticamente e militarmente, le velleità espansionistiche (o di sviluppo, dipende dai punti di vista) della superpotenza asiatica. Biden ha puntato molto sull’intreccio di alleanze, che si sovrappongono e hanno come obiettivo finale non solo la Russia di Putin, ma soprattutto la Cina di Xi Jinping. Il problema vero è che gli interessi degli americani non coincidono, sempre e comunque, con quelli degli alleati. Questi ultimi cercano “sicurezza”, ma sono poco entusiasti di aderire a tutti i diktat economici imposti da Washington.

Sempre e comunque “America first”

“Perché gli Stati Uniti giocano, prima di tutto, una mortale partita per il controllo dei mercati internazionali. Specie quelli dei capitali, dell’energia, del know-how tecnologico e dei semilavorati ad alto valore aggiunto. I problemi territoriali e quelli dei diritti (umani, politici etc,) esistono, senz’altro. Ma non sono la priorità che guida le azioni della Casa Bianca, nei confronti della Cina.”

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Articolo di Piero Orteca, dalla redazione di

12 Luglio 2024