DA REDAZIONE
Paolo Borrometi dalla redazione di ARTICOLO VENTUNO –
Da 32 anni piangiamo per la ferita mortale inferta al nostro Paese a seguito delle stragi del 23 maggio e 19 luglio. Da 32 anni manca la verità su quelle stragi. Da 32 anni si susseguono depistaggi incredibili e domande senza risposta. Eppure delle “tracce” le abbiamo, talvolta sta solo nel volerle leggere e metterle a sistema. Basti pensare che solo nell’ultimo anno abbiamo avuto contezza di una riunione alla quale il dottor Paolo Borsellino partecipò nell’ultimo periodo della sua vita. E c’è da domandarsi come sia possibile che, ancora, ci siano momenti non investigati adeguatamente in quei 57 giorni che separano Capaci da Via D’Amelio.
L’occasione ce la restituisce la Procura di Caltanissetta (nell’ordinanza di custodia cautelare di cui a breve si farà cenno). Parliamo della riunione in cui Borsellino volle partecipare a tutti i costi (pur non avendone delega). La riunione di coordinamento tra la Procura della Repubblica di Palermo e quella di Caltanissetta, in relazione alle risultanze del proc. n. 3471/1992 (sul collaboratore di giustizia, Alberto Lo Cicero), avvenuta il 15 giugno 1992. Borsellino – va ricordato – non aveva ancora la delega a indagare sul territorio palermitano. La otterrà, com’è noto, dal procuratore Giammanco solo la mattina del 19 luglio.
Eppure volle partecipare. Non solo. Marco Minicucci, all’epoca comandante del nucleo operativo di Palermo, spiegherà che “Ricordo che il dott. Borsellino si occupò delle indagini sul Lo Cicero. Preciso che in realtà lui non era il magistrato di riferimento ma ciò nonostante fu messo al corrente delle risultanze originate dalle indagini a carico del Lo Cicero”.
E l’interesse alla questione – solo per alcuni secondaria – aumenta se si spiega come il dottor Borsellino fosse così interessato alle sue dichiarazioni da dare precise e stringenti disposizioni: “Non deve parlare con altre procure”. A riferirlo è sempre Minicucci in una nota del 14 settembre ’92, dunque dopo la strage di via d’Amelio, indirizzata agli uffici inquirenti di Palermo e Caltanissetta: “Sia il dott. Borsellino che la S. V. (ovvero l’allora procuratore aggiunto Vittorio Aliquò) avevano raggiunto accordi, per averli da Voi appresi, circa la inopportunità al momento di richiedere la disponibilità del collaboratore a fornire informazioni ad altre autorità giudiziarie”.
Ma chi è Alberto Lo Cicero?
Un falegname – pregiudicato per reati contro il patrimonio – che il 20 dicembre 1991 fu oggetto di un tentativo di omicidio con numerosi colpi di arma da fuoco “esplosi da sconosciuti”. Per la verità saranno due i tentativi di ucciderlo. E per farlo, almeno in una occasione, si muoveranno addirittura due killer di primissimo piano come Gioacchino La Barbera e Gaspare Spatuzza. Uomini fidati, anzi fidatissimi, del boss Giuseppe Graviano (quello delle bombe, sia in Sicilia che in “continente”, Milano, Roma e Firenze).
Eppure (almeno) parte delle sue dichiarazioni saranno considerate come inattendibili. Certamente quelle relative alla sua – a tal punto presunta – affiliazione alla mafia siciliana. Ma allora perché killer di peso massimo avrebbero dovuto ucciderlo? E perché il dottor Borsellino, che in quei giorni si preparava per interrogare a Roma Gaspare Mutolo e Leonardo Messina (i ‘pentiti’ che gli rivelarono i legami tra cosa nostra e esponenti istituzionali, in primis Bruno Contrada), era così interessato a Lo Cicero? Ad un falegname? Ad un punto così importante da dire di “non farlo collaborare con altre procure”? Insomma Lo Cicero univa l’odio dei boss mafiosi e l’interesse di Borsellino.
Cosa disse Lo Cicero?
I suoi verbali furono redatti, per la prima volta, solo dopo la strage di Via D’Amelio e (purtroppo) con un magistrato che non si chiamò Borsellino.
Al di là della storia (inattendibile per i magistrati, ndr) della sua affiliazione a cosa nostra, disse di aver incontrato in maniera informale (dichiarazione riscontrata) Paolo Borsellino e di avergli parlato dei “neri”.
Ed ancora, lo sapremo dai verbali, spiegherà l’importanza di Salvatore Biondino. Sapremo solo dopo che fosse l’autista di Riina, mentre all’epoca era completamente sconosciuto agli investigatori. Ed ancora: è “sempre al Lo Cicero che si devono le prime significative indicazioni sul conto di altri soggetti come Mariano Tullio Troia, che solo in epoca successiva altri noti collaboratori di giustizia avrebbero descritto come esponente di Cosa Nostra asceso ai massimi livelli e di avere partecipato alla preparazione ed esecuzione della strage di Capaci”. Teniamo bene a mente il nome di Mariano Tullio Troia, il boss che gli altri mafiosi chiamavano “U Mussolini” per le sue estreme tendenze politiche. E Lo Cicero ne era il suo autista. Così come fu il primo ad aver fatto luce sull’omicidio del poliziotto Emanuele Piazza, dicendo dove fosse stato ucciso e come. Ma queste notizie da dove si apprendono? Da pericolosi depistatori? No, dal provvedimento del luglio 2023 del gip di Caltanissetta, Santi Bologna, con cui sono finiti ai domiciliari Stefano Menicacci, ex parlamentare del Msi e storico avvocato di Stefano Delle Chiaie, e il suo braccio destro Domenico Romeo. L’accusa è gravissima ed è ancora in fase d’indagine: aver mentito ai pm per nascondere la presenza di Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, in Sicilia nel periodo precedente al 23 maggio 1992, ovvero alla strage di Capaci. Va ricordato che il dottor Borsellino correva, sapeva di essere il ‘prossimo’, sapeva che fosse arrivato il tritolo per lui. Sapeva e doveva sbrigarsi a capire cosa e chi avesse ucciso il collega – prima ancora l’amico – Giovanni Falcone. Probabilmente assai utile far riferimento a ciò che disse il 25 giugno a Casa Professa, nella conferenza organizzata da Micromega. “Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi”.
E perché, pur dicendo che dovesse “astenersi rigidamente”, confermò ciò che fosse contenuto nei diari di Falcone? E cosa c’era?
Innanzitutto che il procuratore Giammanco “si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea (Roma) per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento ancora non era stato assegnato ad alcun sostituto (7 dicembre 1990);
ed ancora: “18.12.1990 Dopo che, ieri pomeriggio, si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (PCI) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece, sia egli sia Pignatone insistono per richiedere al GI soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo”.
ed infine “19.12.1990. Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio”.
Il dottor Borsellino volle mettere in risalto gli appunti dell’amico e collega. Volle sentire in ogni modo Lo Cicero. E se a tutto ciò aggiungessimo le dichiarazioni di Alberto Volo (sulle quali non si sa se siano mai state fatte indagini) rilasciate ai pm di Palermo nel 2016, in cui si riferisce che “incontrò Borsellino dopo l’attentato di Capaci a cui manifestò il suo convincimento sul collegamento tra l’omicidio del dottor Falcone e le sue pregresse dichiarazioni” al magistrato.
Quali? Quelle sui “neri”, su Gladio e sulla P2. Volo, il “nero” accusatore dei “neri”. Volo, tanto discusso quanto discutibile. Eppure – va ricordato – appena qualche giorno fa citato più volte nella sentenza d’Appello per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie, Ida Castelluccio, con frasi del tipo “le osservazioni e le sensazioni di Volo sono credibili” o ancora “l progetto di uccidere Volo si inseriva in un disegno più complessivo di omicidi”.
Certamente, mettendo tutto in fila, si è ‘costretti’ a riflettere. Oggi sappiamo che Delle Chiaie fosse “in Sicilia nel periodo precedente alla strage di Capaci”; che nella destra eversiva aveva militato Pietro Rampulla, il boss di Mistretta, colui che ha fornito il telecomando della strage e condannato per la strage di Capaci; che Borsellino volesse occuparsi di Lo Cicero. E tanto per dire, altra bizzarra circostanza è che, tra le macchine segnalate in quel periodo ad Arezzo, “nei pressi della villa di Licio Gelli” ve ne sia una intestata a “tale Ferrante, residente a Capaci”. Magari lo stesso Giovan Battista Ferrante che ha concorso alla strage?
Ed allora, cosa portò all’accelerazione della strage che costò la vita a Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina?
Non si è mai fatta ricostruzione completa, complessiva e compiuta di ciò che ha fatto Paolo Borsellino nei 57 giorni tra Capaci e Via D’Amelio. Ciò deriva certamente dalla sua scarsa fiducia, sfiancato da continui tradimenti e, certamente, da quell’agenda rossa trafugata (e non da mani mafiose), ma anche dalla mancanza di volontà nella totale ricostruzione.
Il Paese renderà onore a Paolo Borsellino quando sarà ricostruito tutto. Senza sconti per nessuno, per nessuna pista, per nessun tradimento.
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Paolo Borrometi
Dalla redazione di
19 Luglio 2024