America fra Trump e Kamala Harris, crisi di una classe dirigente

DI ENNIO REMONDINO

 

Dalla redazione di REMOCONTRO –

«La fortunosa ascesa della candidata democratica racconta dei profondi problemi di selezione della classe dirigente negli Stati Uniti», la premessa severa con cui Federico Petroni colpisce su ‘Fiamme Americane’, l’osservatorio di Limes sugli Stati Uniti e sugli intrecci tra la discordia interna e i guai che dalla sua politica estera rimbalzano sul mondo. Nel conto dei problemi di selezione della classe dirigente negli Stati Uniti primo fra tutti, il ‘caso Trump’, tra patologia clinica e codice penale, ma di quel caso si è già discusso a lungo.

Tra un mezzo criminale e una candidata per caso

Titoletto forzato ma sintesi reale. Detta in maniera ‘politicaly correct’: «Una delle dimensioni della crisi degli Stati Uniti è l’evidente problema della selezione della leadership. Eletti troppo anziani oppure poco preparati, in particolare per la politica estera. Scarso ricambio, svolto tramite dannose insurrezioni dentro i partiti. Distorsioni strutturali come l’eccessivo ruolo del denaro o primarie che sfavoriscono figure portate al compromesso. Assenza di pensiero strategico o anche solo di interessi più alti di mantenere il potere».

Scontro nazione-impero

Lo scontro nei fatti fra leader eletti e consenso da conservare e gli apparti federali che fissano i passaggi obbligati per la superpotenza se vuole conservare l’impero. E ne nascono pasticci inestricabili, più evidente sull’Ucraina e più catastrofica in Medio Oriente. Due trappole da cui nessuno dei due potenziali presidenti sa oggi bene come uscire, salvo scemenze comiziesche trumpiane su Kiev che pacificherebbe in un giorno con una telefonata, e alcuni accenni umanitari per Gaza della candidata a sorpresa che non dicono nulle sul sostegno armato americano che consente a Netanyahu di fare il Netanyahu, e a Israele di trasformarsi da solo democrazia mediorientale, a Stato repressivo e autoritario tra tanti altri nell’area.

Kamala a sorpresa già da vice

Ma rimaniamo a Kamala (Komàla si legge). Tifoseria di orientamento Dem a parte, difficile valutare ora se l’onda di entusiasmo fra i democratici dopo la rinuncia dell’anziano presidente diventerà un reale sostegno per Kamala Harris, che, qualsiasi analista politico, ricorda come largamente impopolare per tutto il suo mandato da vice presidente. Ma allora perché? Scarsa come vice, e ora candidata presidente? «La sua fortunosa ascesa aggiunge ulteriori sfaccettature al problema della selezione della dirigenza», insiste il severo Federico Petroni. Impietoso ma rigoroso nel ricostruire la scelta Harris nel 2020, per correre al fianco di Biden.

Come nasce un “vice” Usa

La scelta del candidato vicepresidente è storicamente figlia di valutazioni di brevissimo termine, spiega Fiamme Americane. «Prima regola: ‘do no harm’, non far danni». Il suo impatto sul voto è marginale, non sposta molti suffragi, pochi persino nello Stato d’origine. Al massimo rafforza l’immagine che il candidato alla presidenza vuole dare di sé. Nel 2020 Biden non sceglie Harris per preparare una successione. Anche se esistono già molti dubbi attorno all’età di Biden. Un capitolo sulla scelta della vice, nel libro del 2022 dei giornalisti Jonathan Martin e Alexander Burns, all’epoca al New York Times, quindi politicamente amici.

«La sua priorità è trovare una donna già preparata alla disciplina impietosa di una campagna elettorale, in grado di passare indenne per le forche caudine del controllo del curriculum, ed evitare scandali. Non è la ricerca di un delfino». (Ma quando Obama scelse Biden come vice, voleva davvero un delfino?)

Vice Harris in gabbia o contro di lei

«A Harris viene lasciato pochissimo spazio. In campagna e alla Casa Bianca. Dopo la vittoria, il team che si occupa della transizione conferma di non avere alcun piano per assegnare questioni specifiche alla vicepresidente eletta. Una volta entrata in carica, l’amministrazione ostacola i suoi tentativi di avere specifiche competenze. Anzi le affida missioni scottanti che le si stanno ritorcendo contro». Esempio l’immigrazione. Harris riceve la delega ai rapporti con i paesi del Triangolo del Nord (Guatemala, Salvador, Honduras), da cui proviene una larga parte degli immigrati. Biden dice di averle assegnato il confine, Harris precisa che il confine non c’entra nulla e finisce in guai politici.

Bene in politica interna, poco di esteri, ma è molto curiosa

Molto preparata su alcune questioni interne, soprattutto sulla giustizia, Harris non ha alcuna esperienza diretta di politica estera. Rare le sue presenze nelle riunioni sulla sicurezza nazionale, anche se firma e avalla le scelte del presidente. Badando però a tenersi ben strette le proprie opinioni. Troppi ‘spifferi’ tra gli assistenti del presidente con la stampa. Ma pone domande precise, tante, a ministri e direttori d’agenzia. Curiosità mirata. «Se diventasse presidente, dovrebbe tirar fuori un’autorevolezza e una caparbietà finora non palesate per resistere alla manipolazione degli apparati» la valutazione che consola molti e che a molti altri fa paura. Ed esempio su un suo ‘ampio margine di manovra’ per cambiare i membri del governo.

“Kamala Harris presidente, e molti potenti di oggi, in cerca di nuove prestigiose occupazioni. «Quasi certamente Jake Sullivan, Antony Blinken e Lloyd Austin se ne andrebbero», è la versione elegante del ’non licenziamento’. Con dubbi su quella che potrebbe essere la sua cerchia fidata in politica estera, sulla scia dell’amministrazione precedente, in suo apprendistato, ma con qualche significativa differenza ancora da scoprire.”

La questione razziale

Kamala Harris non è stata scelta come vice solamente perché nera, ma di fatto è rimasta l’unica candidata in lizza anche a causa di questi criteri. La cosiddetta «politica dell’identità», come la definisce Federico Petroni. Che non riguarda solo la politica. La super conservatrice Corte suprema creata da Trump, ha recentemente stabilito l’incostituzionalità dei criteri d’ammissione all’università centrati alle quote di minoranze svantaggiate più che sul merito. Memoria alle non lontane resistenze ai cattolici o agli irlandesi al potere. «Tuttavia, risolvere il cubo di Rubik delle identità è oggi una caratteristica strutturale della selezione nel Partito democratico», sottolinea Limes.

I colori etnici della politica

Quando nel 2020 Biden annuncia le prime nomine della sua cerchia più intima (tutti uomini e donne bianchi), le élite nere, ispaniche e asiatiche si arrabbiano e pretendono delle cariche. Una senatrice, tale Duckworth, scontenta dell’assenza di asiatici al governo, minaccia di non votare più un solo provvedimento e ottiene posizioni influenti per alcuni suoi fedeli. La lottizzazione etnica che in Italia ancora ci manca.

«L’origine etnica è ormai una forma radicata di esercizio del potere in America. Ma essendo il corpo della nazione molto più plurale che in passato, il risultato è un aumento del caos delle correnti in politica. Oltre, ovviamente, a restringere la rosa dei leader selezionabili. Contribuendo agli altri fattori, come la fine dello studio, che abbassano la qualità della classe dirigente».

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Articolo di Ennio Remondino, dalla redazione di

12 Agosto 2024