Ultimo Biden da leader e con Kamala i fischi per la Palestina

DI PIERO ORTECA

REDAZIONE

 

Dalla redazione di REMOCONTRO –

Israele e Palestina sulle presidenziali Usa

Convention Dem di Chicago, passaggio di consegne da Biden a Kamala Harris segnato dalla contestazioni pro Palestina. La politica Usa con Israele e in Medio Oriente una difficile eredità su cui la neo candidata presidente dovrà presto dire qualcosa. L’orgoglio Dem a fare festa e a celebrarsi, ma adesso arriva il difficile.    

Israele e Palestina sulle presidenziali Usa

Nel reticolo di strade che circonda all’Union Center di Chicago, una fiumana di manifestanti filo-palestinesi, parecchie migliaia. A un certo punto, un numero imprecisato di esagitati prova a irrompere nella sede della Convenzione. I rinforzi della polizia hanno tenuto la situazione sotto controllo, evitando sgradevoli incidenti. I manifestanti oltre a Biden, hanno preso di mira anche la sua vice. In particolare, Tarek Khalil, dell’American Muslims for Palestine, si è rivolto alla Harris, dicendo: “Mentre parli, scuole e ospedali e moschee sono stati distrutti, tutti con i soldi delle nostre tasse e con le armi Made in Usa”. Quest’intoppo è solo uno dei primi ostacoli seri, che si trova ad affrontare in prima persona la nuova candidata.

La non facile eredità di Biden

Questa notte, il partito ha fatto parlare Biden, per mettere le basi del sostegno e del passaggio di consegne ufficiale. Nel bene (’intensione) e nel male (le contestazioni). Prima un filmato biografico sulla Harris ha fatto partire un messaggio ossessivo, il mantra che tutti hanno ricordato nel corso della serata: “Sono Kamala, nata in una famiglia della classe media”. Perché? Perché i voti decisivi si prendono al centro e la candidata deve scrollarsi di dosso l’etichetta di “radical chic”, che i suoi avversari le hanno appioppato. Sarà questo, da ora in poi, lo slogan d’ordinanza. Prima di Biden hanno parlato, tra gli altri, Ocasio Cortez, la “pasionaria del partito” e, soprattutto, Hillary Clinton.

La mancata presidente Hillary Clinton

L’ex Segretaria di Stato, sconfitta alle elezioni del 2016 da Trump, ha fatto un brillante discorso di ‘investitura’, toccando i tasti giusti. Ha parlato con energia, sintesi e competenza, dando un’impressione di autorevolezza e di carisma che ancora oggi, tra i Democristici, trova pochi rivali. Lei avrebbe senz’altro avuto la stoffa per fare il Presidente degli Stati Uniti, senza bisogno di manovre di Palazzo. Da ultimo, l’intervento di Biden è stato, più che un indispensabile momento passaggio di consegne, il tributo, con l’onore delle armi, al suo ritiro.

L’orgoglio di Biden

Dopo una lunga ovazione, il Presidente ha fatto un discorso d’impeto, molto emotivo, a tratti anche aspro. Ha elencato, puntigliosamente, quelli che ha definito come “i grandi successi dell’Amministrazione Biden-Harris”, stando bene attento a sottolineare che Kamala ha condiviso tutte le sue scelte. Ha snocciolato dati e cifre incessantemente, dimostrando una buona performance cognitiva. Ha preso (con violenza) ripetutamente di mira Trump, dicendo che è un pericolo pubblico per la democrazia. Ha poi esaltato Kamala, sostenendo (ormai slogan consolidato) “che si preoccuperà della classe media” e che sarà un buon Presidente. L’impressione è stata che più che essere un discorso di “endorsement” alla Harris, si sia trattato dello sfogo di un uomo deluso davanti a una platea politica di ingrati. E che l’uditorio ci abbia capito poco è testimoniato dal fatto che gli hanno pure battuto le mani, quando ha parlato della sua conduzione della guerra di Gaza.

Ma il difficile arriva adesso

Tuttavia, Pelosi, Obama e Schumer, i veri ‘potenti’ Democratici, sanno che il difficile arriva adesso. Kamala dovrà dimostrare, venendo allo scoperto, gli elementi di novità che potrebbero differenziare una sua Presidenza da quella attuale.  I Repubblicani, finora, sono rimasti acquattati, dando agli avversari il tempo di rilanciarsi e consolidarsi. Quella che si chiama una “luna di miele”. Ma adesso stanno già ripartendo al contrattacco. Per quello che serve (solo per fare un po’ di polverone elettorale), hanno già aperto una formale procedura di impeachment contro Joe Biden, per “interessi privati”. Hanno tirato fuori un dossier di 300 pagine che si occupa anche degli affari del figlio Hunter. Ma ci sono, per Kamala, ostacoli ben più seri.  Se sono vere le bozze di alcuni progetti di dirigismo economico che cominciano a circolare, ed allora la strada si fa in salita. Un’analisi del Wall Street Journal, ieri, ha fatto a pezzi queste idee che finirebbero per scassare i conti pubblici.

I vertici Dem, ma la base?

Però Kamala Harris non è solo la candidata dei Democratici alle prossime Presidenziali americane. È molto di più. Sta diventando la locomotiva alla quale aggrapparsi, per trainare i sogni e le speranze di un intero partito e del suo popolo, che erano entrati nel vortice di una depressione politica paralizzante. Così, quando la brutalità dei sondaggi è diventata insostenibile, una coalizione di ‘vip’ e di grandi donatori Democratici ha detto basta. Nessuno voleva portare Donald Trump in carrozza alla Casa Bianca e l’operazione di ‘convincimento nei confronti di Biden, affinché lasciasse la corsa, è stata quasi un atto disperato di autoconservazione. Lungamente agognato da tutti, vertici e base elettorale, indipendentemente dal nome del ‘subentrante’. Kamala è stata una scelta obbligata, perché non c’erano i tempi tecnici per fare una selezione diversa. Con una riflessione “a posteriori” ci sarebbero stati almeno cinque-sei candidati democratici più quotati, per carisma e programmi innovativi.

La “riserva” alla finale di campionato

In fondo, la Harris è stata pur sempre la vice di Biden, anche se non ha mai avuto deleghe di grande rilevanza. Se non quella sulla politica del confine sud. Ma, come ha scritto ieri il Wall Street Journal, oltre ai leader del partito (Obama, Nancy Pelosi la più agguerrita, Chuck Schumer, Hakeem Jeffries) sono stati proprio i generosi finanziatori della galassia bancario-imprenditoriale Usa a imporre una sterzata. Certo, la motivazione genuinamente politica c’era tutta: i Democratici, aggrappati a Biden, rischiavano di colare a picco assieme a lui, perdendo anche il Senato, oltre alla Camera. E regalando a Trump un potere istituzionale pericolosamente assoluto. Il “pronto soccorso” offerto dalla immediata disponibilità di Kamala sembra aver risolto tutto. Almeno per ora.

L’esaltazione degli ex depressi

L’improvvisa apparizione della Harris, in un proscenio di depressi, ha ridato euforia al partito e ai suoi donatori. In sole 24 ore, la sua improvvisata campagna ha raccolto oltre 80 milioni di dollari. E poi la vice Presidente, solo con la potente macchina propagandistica dei Democratici, ha cominciato a macinare “endorsement” (on line) tra gli elettori in crisi fino a pochi giorni prima. Risultato: chiusa la forbice del distacco che Trump aveva nei sondaggi e, anzi, sorpasso a livello nazionale (in media 1-2 punti). Ma questo non significa ancora niente. Negli ‘Swing-States’, gli Stati ‘oscillanti’ dove si decideranno le elezioni, la partita è tutta aperta.

“Swing-States”

“Nevada, Arizona, Georgia, North Carolina propendono per Trump. Michigan e Wisconsin vedono avanti la Harris. La Pennsylvania è in bilico e, quasi sicuramente, sarà il “campo di battaglia” cruciale. Ma lei, Kamala Harris, oggi è una star della politica americana e l’eroina incaricata di battere Trump. È così cresciuta in popolarità che il Wall Street Journal le fa i conti in tasca: per una foto con lei adesso la tariffa è di 50 mila dollari. Che vanno alla campagna elettorale, sia chiaro.”

US Palestinian Community Network

Una coalizione di oltre 200 gruppi contro la strage israeliana a Gaza ha chiamato a raccolta il popolo della contestazione alla strage infinita di Netanyahu. «Questo è il nostro Vietnam», ha detto Hatem Abudayyeh, il coordinatore della protesta che sfila da Union Park da dove è partito un corteo colorato e rumoroso. La manifestazione si è tenuta poco prima che dal palco ufficiale parlassero Hillary Clinton e Joe Biden, denunciato nel corteo come “Genocide Joe”. Tra i suoi complici anche «Killer Kamala». Il problema per quei giovani contestatori, «è lo stesso partito democratico e la sua fondamentale complicità nel sostenere Israele, compreso con l’ultimo pacchetto di forniture militari da 20 miliardi di dollari approvato appena la corsa settimana».

Gli “uncommitted”

La questione palestinese è sfociata anche all’United Center, con una delegazione di ‘uncommitted’, eletti durante le primarie, senza esprimere preferenza per un candidato specifico. «Non siamo ingenui sul conto di Trump. Oggi però siamo qui a chiedere gesti concreti non solo parole. I bambini palestinesi non possono mangiare parole». Ad esempio l’applicazione delle norme già esistenti sul rispetto dei diritti civili da parte di stati che ricevono forniture militari. E il rispetto del Leahy Act, che prevede che paesi che ricevono aiuti militari non debbano avere procedimenti a carico come quelli conto Israele alla Corte internazionale di giustizia. Sarebbe sufficiente che un’amministrazione Harris insistesse sul rispetto di queste regole (finora ignorate da Biden) per imporre una pausa alle forniture di armi a Netanyahu.

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Articolo di Piero Orteca, dalla redazione di

20 Agosto 2024