DI ALFREDO FACCHINI
Ore 10. Campo profughi di Chatila.
“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista.”
È la testimonianza in presa diretta di Robert Fisk, reporter di guerra.
Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele ha lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se ne sono appena andati.
Tutto si consuma in meno di due giorni, tra il tardo pomeriggio del 16 e la mattina del 18 settembre del 1982 nei campi profughi di Sabra e Chatila, vicino Beirut.
Migliaia di civili, donne e bambini palestinesi vengono trucidati sotto i colpi delle milizie libanesi, con l’assenso tacito dell’esercito israeliano che staziona fuori dei campi.
Si deve a giornalisti come Robert Fisk, corrispondente di “The Indipendent” da Beirut, il primo indicibile racconto di uno dei più feroci crimini di guerra avvenuti in Medioriente.
Una manciata di fatti per ricordare il contesto di allora. Il 5 giugno del 1982, l’esercito di Israele invade il territorio libanese – una fascia di 40 km – da cui da mesi miliziani filo-siriani attaccano le città israeliane al di là del confine.
Nei primi giorni di agosto gli israeliani arrivano alle porte di Beirut. Si concorda un cessate il fuoco per consentire l’evacuazione del quartier generale dell’”Olp” di Yasser Arafat, stanziato in Libano dal 1948, che si trasferisce a Tunisi. Per consentire l’operazione viene mobilitata una forza internazionale composta da Stati Uniti, Italia e Francia.
La presenza israeliana nel sud del Paese favorisce l’elezione a presidente di Bachir Gemayel (1923-1982), cristiano maronita. Gemayel, nove giorni dal suo insediamento muore in un attentato dinamitardo. (14 settembre 1982). L’episodio innesca la rappresaglia.
I miliziani cristiano-maroniti individuano due campi profughi dove a loro dire si sarebbero nascosti alcuni militanti superstiti dell’OLP.
Si tratta dei campi di Sabra e Chatila, collocati nella zona di Beirut ovest, sotto il controllo dall’esercito di Tel Aviv.
Le milizie maronite il 16 settembre, intorno alle ore 18:00, entrano nel campi. Ne escono quarantott’ore dopo, lasciandosi alle spalle una carneficina.
Un primo bilancio parla di 400 vittime, uno successivo di 800. Per i palestinesi sono almeno 3600 i morti.
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Elaine Carey, corrispondente del “Daily Mail”: «Nella mattinata di sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto strano, dal momento che il campo, quattro giorni prima, era brulicante di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L’odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore».
Il 16 dicembre 1982, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con una risoluzione condanna il massacro, definendolo un atto di genocidio.
Tutto solo sulla carta. Elie Hobeika. che guida il massacro delle falangi libanesi non è mai stato processato. Anzi, durante gli anni novanta viene più volte eletto deputato e ministro in vari Governi libanesi.
Una Commissione d’inchiesta israeliana ammette la responsabilità “indiretta” del Primo Ministro israeliano, Menachem Begin, del Ministro della Difesa, Ariel Sharon, e del Capo di Stato Maggiore, Rafael Eitan, per aver “ignorato” quanto stava accadendo e non aver cercato di fermare il massacro.
La Commissione suggerisce inoltre le dimissioni di Sharon, che restano, naturalmente, lettera morta.
Nessuno ha pagato.
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Alfredo Facchini