DI ALFREDO FACCHINI
Homo sionista
C’è un abisso, un luogo in cui la luce si dissolve e in quell’oscurità ha preso forma una specie omicida che uccide per il solo gusto di farlo, per trasformare la sofferenza altrui in un monumento alla propria supremazia.
Quella specie ha un nome: ”homo sionista”.
Una specie brutale oltre l’immaginabile, l’indicibile, che ha progettato strumenti che non solo feriscono, ma dilaniano, non solo uccidono, ma annichiliscono. Perché non basta distruggere il corpo: bisogna rendere l’altro un nulla o una cifra in un elenco.
Hannah Arendt, assistendo al processo di Eichmann, descrisse il “Male” come “la banalità del male.”
Eichmann non era un demonio in carne e ossa, ma un burocrate qualunque, che con penna e modulo firmava condanne come si firmano bollette. È qui che il male raggiungeva la sua vetta più gelida: non nel clamore, ma nella sua capacità di rendersi invisibile.
No, l’”homo sionista”, è maniacalmente peggiore: trasforma la morte e la distruzione in intrattenimento. Si filma, si fa selfie. Con alle spalle edifici sventrati, muri crivellati, strade polverose e sopra la luce bianca del Mediterraneo. Tutto in Mondovisione.
In quell’abisso, l’umanità si contrae, e ciò che resta è la ferrea convinzione di possedere la terra che si calpesta e il diritto di modellarla. È un uomo che guarda il mondo non con occhi, ma con confini, mappe, che tracciano linee come ferite sul corpo del suolo.
L’”homo sionista” si muove con il passo del conquistatore e il pensiero del redentore, credendo di portare ordine nel caos.
L’”homo sionista” è il prodotto di un’ideologia che si dichiara divina, ma non c’è creatura più distante dalla perfezione divina di colui che si vanta di essere a sua immagine e somiglianza.
Forse, un giorno, nella sua apparente invincibilità l’”homo sionista” guarderà nell’abisso e vi troverà il proprio riflesso.
Dedicato a Wael Al-Dahdouh, Heba Al-Ablada, Medhat Sedim, Khaled Nabhan, Hussam Abu Safiya, Chef Mahmoud …
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Alfredo Facchini