DI ALFREDO FACCHINI
Peppino Impastato nato a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio del 1948: “Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi. Prima di non accorgerci più di niente”.
Peppino Impastato era un giovane speciale. Nato in una terra dove la mafia era parte del paesaggio, cresciuto in una famiglia con un padre mafioso trovò il coraggio di voltare le spalle ad un destino che per lui sembrava già scritto.
In un tempo in cui il silenzio era la scelta più sicura, decise di non restarsene zitto. Mai.
Cinisi è un paesello che si sdraia sulla baia del Corallo, ad una manciata di chilometri dal capoluogo siciliano. Qui, come in tutta la Sicilia occidentale, spadroneggia la mafia che traffica tutto il trafficabile. Dicono in giro che non si muova paglia se non lo voglia il capo dei capi, Gaetano Badalamenti. “Don Tano”, così lo chiamano sottovoce i suoi fedelissimi di dubbia costituzione civile. Tutti agli ordini e “nenti so”.
Chi non gli ha mai fatto la riverenza è stato Peppino. Proprio no. Lui lo ha preso per il culo dalla mattina alla sera. Lo chiamava “Don Tano seduto”, il grande capo di “Mafiopoli”.
Lo sfotteva dai microfoni di “Radio Aut”, che aveva accroccato insieme ad una ventina di compagni coraggiosi come lui. Quando il vento gira per il verso giusto il segnale arriva pure a Castellammare del Golfo. Una trentina di chilometri da “u paìsi”.
Dalle frequenze dei 98.800, Peppino non le mandava a dire, ne aveva per tutti: il sindaco, l’assessore, il notaio, il parroco, il maresciallo. Li prendeva tutti, uno per uno, per il culo. Non è difficile trovare il mandante.
Peppino Impastato aveva letto Leonardo Sciascia e imparato che “la mafia è dentro di noi. Si infiltra come una religione. Ti convince che anche quello che ti spetta non è un diritto, ma un favore. La “Mafia” distribuisce equamente lavoro e morte, soperchierìa e protezione”.
La cosa più paradossale che Peppino è figlio di una “famigghia mafiosa”. Il lezzo maleodorante della mafiosità lo ha respirato sin da “picciriddu”.
Suo padre è alla testa di un piccolo clan. Si è fatto uomo d’onore durante il fascismo, tanto da collezionare tre anni di confino a Ustica per attività mafiose.
Suo zio, Cesare Manzella, è stato il capo incontrastato della cupola mafiosa fino al 1963 quando lo fanno saltare in aria con una autobomba. Anche il padre di Peppino fa una brutta fine. Viene investito e ucciso da una macchina.
Morto Manzella, lo scettro passa al suo braccio destro: Gaetano Badalamenti. “Don Tano”, imbastisce in pompa magna il traffico di eroina con gli Stati Uniti. Si è fatto costruire a suo uso e consumo l’aeroporto di Punta Raisi, ad un tiro di schioppo da Cinisi.
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Lì l’ha voluto e lì l’hanno costruito, nonostante tutti i pareri tecnici avessero individuato un’altra area, quella compresa tra l’Astra e Acqua dei Corsari. L’opera venne sfiocchettata nel 1960 e vennero subito a galla tutte le magagne. Quella più grossa era rappresentata dai venti meridionali di scirocco. Smitragliate di aria bollente che rendevano “Punta Raisi” un luogo poco ospitale per rullate, decolli ed atterraggi.
Per rendere lo scalo meno impraticabile venne realizzata un’ulteriore pista trasversale rispetto alle altre due, per la quale l’amministrazione comunale decise d’imperio una raffica di procedure d’esproprio. Con la forza vennero fatti sloggiare dalle loro terre duecento famiglie contadine.
Zitti e mosca, tranne il solito “rompicaz*o” di Peppino che fino all’ultimo respiro ha denunciato uno spudorato saccheggio che grida vendetta. Anche per questo gli hanno fatto fare il botto.
Vito, Faro, Salvo e Giovannino i compagni della radio hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare i carabinieri. Hanno cercato e trovato la prova schiacciante dell’esecuzione di Peppino: una pietra macchiata di sangue in un casolare poco distante la ferrovia. I suoi assassini lo hanno prima colpito, poi trascinato sulle rotaie e maciullato con dieci candelotti di esplosivo.
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9 maggio 1978. Nel giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, la cronaca nera si imbratta di altro sangue. Alle porte di Palermo, a Cinisi, sulle rotaie della ferrovia i carabinieri trovano quello che resta del corpo martoriato di Peppino Impastato.
Scrive il giorno dopo il Corriere della sera: “Forse un attentato, forse un suicidio. Non è ancora chiara la causa della morte di Giuseppe Impastato, dilaniato dall’esplosione di una bomba sui binari del treno Palermo-Trapani. Impastato, 30 anni, era candidato nelle liste di “Democrazia Proletaria”, alle elezioni comunali del 14 maggio a Cinisi”.
Per i carabinieri è abbastanza. Hanno fatto presto, prima del solito. Era un terrorista, anzi no, un dinamitardo suicida. Il caso è chiuso. Cartabollato. Non la vogliono proprio spiccicare la parola: “Mafia”.
Ma la biografia di Peppino sta lì, bella come il sole, a sbugiardare chi lo vuole tombare una seconda volta. Per i compagni a togliere di mezzo Peppino sono stati “notissimi ignoti”.
La sentenza è arrivata il 5 marzo 2001, dopo una lunga battaglia giudiziaria portata avanti dalla famiglia Impastato. Gaetano Badalamenti viene condannato all’ergastolo.
Felicia Bartolotta Impastato, la madre di Peppino: “La mafia uccide, il silenzio pure”.
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Alfredo Facchini