Giornalisti, giornalisti

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Erano giornalisti, tutti quanti.

Potrebbe essere un'illustrazione raffigurante testo
Non c’erano eroi o martiri, solo donne e uomini con gli strumenti del mestiere.
Facevano il loro lavoro, con la dignità di chi sa che raccontare è un dovere. Si trovavano nel posto più insicuro al mondo: Gaza.
Ma non c’era altro posto in cui sarebbero stati: era lì che la storia si scriveva, ed era lì che loro dovevano essere.
Erano giornalisti, tutti quanti. Facevano il loro lavoro nel posto più insicuro al mondo, senza illusioni di immortalità.
Si muovevano con il passo di chi sa di essere nel mirino di un cecchino o di un drone.
Ogni articolo, ogni scatto che inviavano non era un semplice lavoro, ma un filo teso tra due mondi opposti: il genocidio e il bisogno di capirlo.
Nei boati delle esplosioni, nelle urla che si spegnevano troppo presto, nella polvere che copriva tutto loro cercavano storie. Non grandi storie, ma quelle che nessuno voleva più vedere: le mani che scavavano nella macerie, il pianto di un ragazzino, un uomo che urlava al cielo come se Dio potesse ancora sentire.
Avevano paura, certo, ma non era la paura a guidarli. Era qualcosa di più potente, quello di non permettere che il silenzio seppellisse tutto.
E così, ogni giorno, uscivano con le loro penne, le loro telecamere, i loro occhi spalancati sull’abisso. Si mescolavano a chi non aveva più nulla, si caricavano addosso storie che li avrebbero seguiti ovunque, tormenti troppo acidi per chiunque non avesse fatto il loro mestiere.
Non si sentivano speciali, né indispensabili. Ma sapevano che il loro lavoro era una Resistenza.
Erano giornalisti, tutti quanti.
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Alfredo Facchini