DI ALFREDO FACCHINI
Quanto vale una vita
Pagine e pagine dedicate alle tre prigioniere israeliane liberate ieri da Hamas, un clamore che sembra gridare al mondo quanto, per la stampa occidentale, la vita di un israeliano pesi come una montagna, mentre quella di un palestinese svanisca, come una piuma portata via dal vento. Un’asimmetria di attenzione che parla più forte di qualsiasi editoriale, delineando il profilo di un’umanità ineguale, raccontata con misure diverse a seconda del lato del conflitto da cui proviene.
Sessantanove donne e ventuno minori.
Un nome su tutti
È questo il calcolo ragionieristico della lista dei primi novanta prigionieri palestinesi rilasciati. Un nome su tutti spicca nell’elenco: Khalida Jarrar, sessantadue anni, figura emblematica della lotta palestinese, membro storico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Jarrar ha attraversato la vita con il peso della Resistenza sulle spalle e il marchio indelebile degli arresti che l’hanno sottratta alla libertà più volte. Una fotografia del 2019 racconta, meglio di mille parole, un frammento della sua storia: l’abbraccio con sua figlia Suha, un momento di tenerezza rubato al carcere. Suha morì due anni dopo, per un arresto cardiaco, e sua madre non poté esserle accanto neanche nell’ultimo addio.
Khalida non è l’unica donna dalla biografia intrisa di dolore e lotta. Tra le detenute c’è Dalal Khaseeb, sorella di Saleh Arouri, il numero due di Hamas, ucciso da un raid israeliano a Beirut dopo il 7 ottobre.
Un’altra donna che porta il carico di legami inscindibili è Abla Abdelrasoul, sessantotto anni, moglie di Ahmad Saadat, leader del Fplp. Suo marito, condannato a trent’anni di carcere per l’omicidio, nel 2001, del ministro israeliano Rehavam Ze’evi, è ancora al centro di una partita politica e simbolica, proprio come Marwan Barghouti, carismatico leader della Seconda Intifada, che gli stessi israeliani avevano un tempo considerato il possibile architetto di una nuova Gaza. Ma Barghouti, come Saadat, resta dietro le sbarre. Tra i ventuno minori, il più giovane ha appena quindici anni. Mahmoud Aliowat. I loro nomi, i loro volti, appartengono a un mosaico che intreccia appartenenze e bandiere: undici affiliati a Hamas, quattro al Fplp, nove a Fatah.
Un silenzio imposto
E mentre si prepara il ritorno, le famiglie si radunano con dolci e preghiere, ma senza bandiere. Israele, con mano pesante, confisca simboli e foto, soffocando nel nascere ogni tentativo di trasformare questi ritorni in celebrazioni. In ogni casa, la gioia di un ritorno si mescola al silenzio imposto, mentre un popolo continua a cercare faticosamente la strada per farsi sentire.
.
Alfredo Facchini