Di STEFANO FASSINA
Un anno fa, con piena consapevolezza della controversa natura del M5S, il Partito Democratico-Italia Viva e Liberi e Uguali decidevano di avviare il governo Conte 2. Una scelta difficile, date le profonde differenze, di cultura politica prima che di programma, tra i lontani eredi degli scrittori della Costituzione e dei protagonisti della Prima Repubblica e il Movimento nato per annientarli e per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”.
Una scelta che continuo a ritenere saggia e utile: non soltanto a fronteggiare i rischi, decisamente più concreti dei “pieni poteri”, all’unità sostanziale della Repubblica, minacciata alle fondamenta fiscali dalla cosiddetta “Autonomia differenziata”, ma anche a ricostruire le condizioni culturali e politiche per la democrazia costituzionale.
Come noto, oltre a una decisiva pars contra (Matteo Salvini), l’accordo di governo aveva anche una significativa pars pro. In particolare, il programma di governo elaborato dal M5S, Pd e Leu e ufficialmente presentato da Giuseppe Conte il 4 Settembre 2019 conteneva sul terreno istituzionale, al punto 10, il seguente impegno:
“È necessario inserire, nel primo calendario utile della Camera dei deputati, la riduzione del numero dei parlamentari, avviando contestualmente un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale. In particolare, occorre avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale. ….”
Inoltre, sempre sul piano costituzionale, le richiamate linee programmatiche, al punto 20, prevedevano una radicale correzione di rotta sull’Autonomia differenziata, dopo la meritoria resistenza attuata dal M5S alla declinazione eversiva, imposta dal presidente di Veneto e Lombardia, dello sciagurato Titolo V della nostra Carta.
Infine, ma è questione fondamentale, veniva tacitamente archiviata una modifica davvero esiziale alla democrazia costituzionale e alla funzione del Parlamento: il referendum propositivo senza riserve di materia, previsto esplicitamente in chiave anti-parlamentare. Ricordo che non era una promessa elettorale del M5S rimasta sulla carta. La Proposta di Legge Costituzionale n 1173, presentata da D’Uva, Capogruppo M5S, Molinari, Capogruppo Lega e altri (“Modifica all’articolo 71 della Costituzione in materia di iniziativa legislativa popolare”), era stata approvata, con qualche modifica, in prima lettura, dalla Camera dei Deputati il 21 Febbraio 2019.
In sintesi, il nostro (del Pd-IV e di Leu) “Sì” alla riduzione del numero dei parlamentari era un compromesso politico sensato. Era la condizione necessaria per ricondurre nell’alveo dei principi costituzionali una rabbiosa carica anti-parlamentare e anti-unitaria interpretata, rispettivamente, da chi aveva ottenuto un terzo dei voti degli italiani e da chi, oltre a diventare il secondo partito rappresentato in Parlamento (la Lega Salvini Premier), governava stabilmente le due principali regioni della nostra Repubblica e, a Luglio dello scorso anno, aveva in mano tutte le altre regioni del Nord Italia.
In tale contesto politico e in base agli impegni sottoscritti nel Programma di Governo, con il “Si” alla “fiducia” al governo Conte 2, noi parlamentari di Pd-IV e Leu, abbiamo posto le premesse per ribaltare la nostra posizione sulla modifica costituzionale relativa al numero di Deputati e Senatori. Conseguentemente e compattamente, in seconda lettura alla Camera e al Senato, abbiamo votato a favore.
È evidente che quanto si sarebbe dovuto realizzare “contestualmente” a tale svolta non si è (ancora?) realizzato. In particolare, la proposta di legge elettorale proporzionale, largamente condivisa prima dell’esplosione della pandemia, non è stata calendarizzarata in Commissione Affari Costituzionali della Camera in tempo utile per avere almeno una prima positiva lettura alla vigilia del voto popolare. Ma chi ha ostacolato il raggiungimento di tale obiettivo? È stato il M5S? No, chi ha contraddetto gli impegni presi un anno fa è stata, per ragioni strumentali che qui non c’è spazio per elencare, Italia Viva.
Inoltre, non è stata ancora approvata, ma arriva a breve all’esame in I Commissione alla Camera, la proposta di legge costituzionale, firmata da Fornaro, Capogruppo di LeU, e dagli altri capigruppo di maggioranza, per introdurre le circoscrizioni pluri-regionali per l’elezione del Senato e per la riduzione da 3 a 2 dei delegati regionali chiamati a far parte del collegio per l’elezione del presidente della Repubblica, al fine di ristabilire, dopo la riduzione del numero di Deputati e Senatori, la proporzione prevista a Costituzione vigente con il numero dei parlamentari.
Nel quadro in cui siamo, dovremmo tornare sui nostri passi e consideraci sciolti dal punto 10 del programma di governo e liberi di votare No al referendum costituzionale? Ritengo sarebbe un grave errore politico, oltre che ennesima dimostrazione di scarsa autonomia della politica dalla propria constituency di riferimento.
Non sottovaluto le ragioni dei No. Ho massima stima per quanti si battono per convinzioni profonde e sincere. Sono stati i compagni e le compagne di strada nella controffensiva per respingere la riscrittura regressiva della Costituzione tentata dal governo Renzi nel 2016. Li rispetto. Condivido alcuni dei rischi indicati. Sono reali e vanno disinnescati. È evidente che la natura della legge elettorale è di primaria rilevanza, innanzitutto per le garanzie e gli equilibri costituzionali. È altrettanto evidente la rilevanza della proposta Fornaro e della revisione dei regolamenti di Camera e Senato.
Altri rischi sottolineati dai fautori del No, invece, mi paiono meno fondati. Per esempio, mi pare frutto di smarrimento culturale la preoccupazione per la rappresentanza territoriale. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”, è scritto nell’articolo 67 della Costituzione.
Deputati e Senatori non rappresentano la regione, la provincia o la città nella quale sono eletti. I territori sono rappresentati nei Consigli regionali e comunali. Le regioni, per le materie di loro competenza, si esprimono nella Conferenza Stato-Regioni. I Comuni hanno analoga sede istituzionale. Trovo anche enfatica l’insistenza sul pluralismo politico e culturale. Le democrazie nel capitalismo finanziario globale post ’89 hanno vissuto e vivono crisi di efficacia, non di rappresentanza. La piena rappresentanza della miriade di sedicenti “partiti” o “culture politiche” di qualche centinaia di migliaia di elettori è irrilevante per il funzionamento della nostra democrazia costituzionale. Anzi, confina la politica a una funzione estetica.
La democrazia parlamentare deve, invece, recuperare efficacia. Ma qui, il vigente numero di rappresentanti è un totem. La sfida è decisamente più impegnativa. Innanzitutto, sul piano culturale. Ha a che fare con la cessione del primato della politica al mercato, codificata nei sacri testi dell’Unione europea e nei trattati internazionali per la “libera” circolazione di capitali, merci, servizi e persone. Ha a che fare con l’egemonia liberista, interpretata più o meno consapevolmente e attivamente dalla sinistra storica, e la conseguente attribuzione di responsabilità politiche decisive, come il governo della moneta, alle cosiddette Autorità indipendenti.
Ovviamente, le valutazioni appena esposte valgono, in modo speculare, anche per chi racconta il taglio dei parlamentari come un risultato importante per i cittadini, in particolare per chi è più in difficoltà: in sé, è inutile al miglioramento delle loro condizioni materiali di vita, in quanto privo di effetti ai fini della decisione politico-istituzionale. Non mi soffermo, invece, sui Sì immorali, motivati dai risparmi di spesa pubblica o sul grillismo dall’alto del presidente di Confindustria, autocelebrato “uomo del fare” contro i politici nullafacenti, sprechi da tagliare.
Allora, perché Sì? Per 3 motivi. Primo: perché, per chi in Parlamento ha votato Sì all’ultima lettura della modifica costituzionale, è dovere di coerenza e serietà e condizione per pretendere da tutti i gruppi della maggioranza impegni immediati ad approvare, prima del 20 settembre in Commissione, subito dopo in aula alla Camera, la proposta di legge elettorale proporzionale condivisa nei mesi scorsi.
Poi, ma subito dopo, per approvare la richiamata proposta di legge Fornaro e modificare i regolamenti e l’organizzazione dei lavori parlamentari. Se Pd, IV e LeU passassero al No sancirebbero e legittimerebbero il disconoscimento non soltanto del punto 10 del programma di governo, ma dell’intero pacchetto, dato che non può diventare a la carte. Si indebolirebbe ancora di più il collante positivo della maggioranza e aumenterebbero le probabilità di un cambio di governo all’insegna della normalizzazione liberista.
Secondo motivo per il Sì, strettamente connesso al primo: perché è necessario a coltivare la maturazione culturale e politica della maggioranza, segnatamente il rapporto del Pd e dintorni con il M5S. Attenzione, cari nostalgici del centrosinistra, con o senza trattino: la relazione sinergica con un M5S robusto è condizione necessaria, certo non sufficiente, per vincere contro l’alleanza nazionalista, altrimenti non c’è partita. I risultati delle prossime elezioni regionali lo renderanno ancora più evidente. Le difficoltà incontrate a cooperare sono conseguenza del rapido passaggio di fase politica, non devono indurre a cambiare strada: non c’è alternativa di segno sociale progressivo alla attuale maggioranza parlamentare.
La spettacolare inversione a U per arrivare alla campagna per il No compiuta dai grandi giornali nutrici di anti-politica dovrebbe far riflettere. Insomma, la “linea Zingaretti” sul M5S, l’unico tratto distintivo della sua segreteria, è essenziale.
Terzo motivo per il Sì: perché la rabbia sociale verso istituzioni rappresentative vissute come distanti e impotenti esiste, non è un’invenzione del M5S. Riconoscerla e incanalarla lungo i binari costituzionali non è un atto di genuflessione al populismo. È realismo politico per provare a ricostruire un minimo di connessione sentimentale con le fasce di popolo delle periferie economiche e culturali.
Insomma, le condizioni per il Sì sono irrinunciabili, ma il Sì è l’unica partita politica possibile.