DDL ZAN, ANALFABETISMO LEGISLATIVO

DI MARIO BOFFO

​Il sonno della ragione produce mostri, disse Goya. L’analfabetismo legislativo, cioè l’incapacità del legislatore di scrivere testi di legge chiari, intellegibili e privi di ambiguità, rischia di creare mostri analoghi a quelli immaginati dal grande pittore spagnolo.

​Indipendentemente dalle ragioni e dalle esigenze dei cattolici, il testo del DDL Zan, legge giusta nel tema di fondo, presenta una serie di ambiguità ed è frutto proprio dell’analfabetismo legislativo che affligge da tempo il nostro legislatore. Che questo analfabetismo dipenda da successive integrazioni dovute a questo o quel compromesso, oppure proprio dal non saper formulare un pensiero e un testo in modo limpido e univoco in buon italiano, poco importa. Nel caso in questione, il risultato è un testo circonvoluto e poco chiaro, soprattutto nel famigerato articolo quattro, il quale recita:

​“Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

​Comportamenti (ed espressioni di pensiero) “legittimi”, “purché” non creino “pericolo”; cioè, un comportamento può essere sia legittimo, sia in qualche caso pericoloso, pur rimanendo legittimo. Questo vuol dire che uno scritto, una frase, un comportamento, possa essere considerato legittimo ma pericoloso da un giudice, e pericoloso benché legittimo da un altro.

​I testi di legge dovrebbero essere chiari, di univoca interpretazione e scritti con il minimo di parole, senza concetti confusi e fonte di confusione. Il giudice, infatti, non deve essere costretto a “interpretare”, ma deve semplicemente valutare se la fattispecie concreta che gli è portata a giudizio corrisponda alla fattispecie astratta prevista dal legislatore, con gli eventuali aggiustamenti previsti dai codici.

​Ecco come si sarebbe potuto scrivere un testo di legge contro l’omolesbotransfobia, al margine di qualche sottigliezza giuridica migliorativa da affidare agli esperti e senza far riferimento alla legge Mancino (il reato che s’intende perseguire merita infatti una normativa specifica, e non necessità di essere “agganciato” a leggi precedenti nate in diversi contesti concettuali).

​Art. Uno. (Gli atti di violenza o discriminazione….) sono puniti con tale aggravante se commessi con motivazioni omofobe oppure se basati su forme di avversione a qualsivoglia condizione fisica, morale, psicologica, di orientamento sessuale o di percezione di sé della vittima sul piano dell’identità di genere (in tal modo si comprenderebbero gli atti contro i disabili, i giovani timidi e introversi vittime di bullismo, anche se non LGBTQIAPK+, questi ultimi, i fluidi, eccetera);

​Art. Due. È punita con tale aggravante l’istigazione a commettere atti richiamati nel precedente articolo (senza evocare la libertà di pensiero, che è garantita dalla democrazia, e senza i famosi e ambigui “purché”: l’istigazione è un istituto giuridico conosciuto da tutti gli ordinamenti, che non dà spazio a incertezze e che orienta correttamente il giudice).

​Nell’attuale formulazione, non solo chiunque, anche in perfetta buona fede, può incorrere in una frase ritenuta grave da un giudice severo. Ma paradossalmente vi è anche meno protezione per gli interessati, perché nell’ampiezza interpretativa scorrettamente attribuita al giudice, può accadere che un comportamento o una dichiarazione malevola e pericolosa venga ritenuta legittima e non colpevole da un giudice meno severo.

​La legge dovrebbe semplicemente punire gli atti omofobi e la loro istigazione, cioè il tentativo di spingere o convincere altri alla commissione di reati. Come è in sostanza per ogni altro contesto legislativo o penale.