DI EMILIANO RUBBI
Diciamoci la verità, oltre il 90% dei no green pass che scendono in piazza sono persone che non hanno la minima intenzione di vaccinarsi. Poi, ovviamente, esiste anche una percentuale di persone vaccinate e contrarie al green pass, ma è estremamente minoritaria.
Ma perché un sacco di gente non vuole vaccinarsi? Il punto è quello.
Ricapitolando:
1) Si è visto che il vaccino funziona. I contagi, nonostante la variante Delta, che è molto più infettiva, e nonostante si sia praticamente riaperto tutto, restano sotto controllo, mentre i ricoverati in terapia intensiva e i morti sono pochissimi.
2) Si è visto che le reazioni molto gravi al vaccino sono 0,2 su un milione. Enormemente inferiori a quelle di un qualsiasi farmaco, in pratica. Per capirci: la comune aspirina può provocare uno shock anafilattico a una persona su 5.000.
3) Si è visto che i ricoverati in terapia intensiva e i morti sono principalmente tra i non vaccinati, nonostante essi rappresentino circa il 20% del totale.
4) Si è visto che, tramite la campagna vaccinale, si sono potute riaprire le attività e non sono stati necessari altri lockdown, perché l’epidemia è diventata molto più controllabile.
Questi sono dati inconfutabili, a meno che uno non voglia supporre che “ci stiano mentendo” (non si sa bene chi) e che, in realtà, i vaccini stiano provocando milioni di morti e il Covid sia un’influenza, ovviamente, ma a quel punto varrebbe tutto.
E allora perché quel 20% di persone non vuole vaccinarsi?
La verità è che la maggior parte di loro ha paura. I discorsi sulla “libertà” non c’entrano niente e sono puramente strumentali. Questi hanno paura perché la comunicazione sui vaccini da parte dei media è stata schizofrenica (ricordate le idiozie dette su Astrazeneca?) e perché le fake news sono diventate un problema endemico, al tempo dei social.
Se questa pandemia fosse avvenuta in un’epoca precedente a Facebook, a Twitter, a Telegram, i no vax sarebbero stati una percentuale risibile.
Per anni, le persone sono state abituate a una comunicazione “mediata” dai giornalisti, dalle emittenti, dai giornali, dagli editori. La disintermediazione comunicativa ha prodotto da un lato una maggiore pluralità e una più spiccata libertà, dall’altro ha ovviamente moltiplicato il fenomeno delle “bufale”.
E le fasce d’età più colpite sono quelle dei “non nativi digitali”, ovvero tutti coloro che, abituati a una comunicazione “filtrata” e “verticale”, oggi faticano a comprendere appieno il fatto che una notizia su internet possa benissimo provenire da un blogger di 13 anni che ha deciso di inventare una connessione tra vaccini e 5G nella propria stanzetta, da un qualsiasi ciarlatano, oppure da un’organizzazione politica che ha interessi nel far credere qualcosa agli elettori. Non a caso, i meno inclini a credere alle teorie complottiste sono proprio i più giovani, perché sono nati con internet e sanno perfettamente come funziona.
Ecco, quando parliamo di social network, parliamo anche di questo. Parliamo di uno strumento ancora relativamente recente che, al momento, ha portato più danni che benefici. Danni che vanno dall’eccessiva semplificazione di ogni argomento fino all’esplosione della sindrome di Dunning Kruger (“ipotetica distorsione cognitiva, a causa della quale individui poco esperti e competenti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità auto valutandosi a torto esperti in materia”). Questa sindrome, è divenuta vera protagonista di questo momento storico che, in misura maggiore o minore, ormai colpisce quasi tutti noi, me compreso, ovviamente.
Una volta ero convinto che fosse un male che i ragazzini avessero abbandonato in massa Facebook, dove si esprimono concetti tramite la scrittura, in favore di una serie di piattaforme più orientate, per loro natura, alla sola estetica e meno capaci di generare discussioni, come Instagram o TikTok.
Oggi credo che, probabilmente, quella possa essere stata la loro salvezza.