DI ALBERTO BENZONI
Che cos’è l’occidentalismo?
Diciamo che si tratta di una specie di malattia professionale che, da qualche tempo in qua, colpisce politici e opinionisti al di qua e al di là dell’Atlantico; per non parlare degli apparati militari e di sicurezza.
Occidentalismo è il fatto che la Cia, ai tempi dell’esplosione del jihadismo avesse pochissime persone che parlassero l’arabo; e ora scarseggi in modo impressionante di personali in grado di capire il cinese. Mentre, ancor oggi, la sezione Asia centrale è quella che si occupa della Russia.
Occidentalismo è considerare protagonista o magari solo simbolo dell’alternativa al regime Navalny o magari la tennista cinese solo perché “sono dei nostri”. Senza curarsi minimamente di quelli che non lo sono; ma combattono lo stesso per cambiare il paese in cui vivono.
Occidentalismo è vedere l’Afghanistan solo attraverso gli occhi delle donne di Kabul; dimenticandosi che siamo in un paese di 40 milioni di abitanti, un certo numero dei quali rischia di non superare l’inverno.
Occidentalismo è credere che Guaidó sia mai stato il legittimo rappresentante del popolo venezuelano. Mentre da tempo è completamente screditato. E mentre le ultime elezioni, con la presenza di osservatori internazionali, hanno semplicemente confermato quello che era ovvio sin dal principio: che Maduro vince semplicemente perché è l’unica minoranza organizzata e motivata; e che, per altro verso, il 60% dei venezuelani ne ha piene le tasche di tutti i politici.
Occidentalismo è la convinzione, ormai radicata, che i migranti arrivino da noi perché spinti dagli scafisti o da regimi cattivi e non per le condizioni insostenibili in cui vivono anche per colpa nostra. E che, per inciso, non facciamo nulla, ma proprio nulla per modificare.
Occidentalismo è l’orrendo perché permanente doppio standard che applichiamo nel giudicare le cose del mondo. Dalla valutazione della “qualità delle vittime” (quelle che appartengono al nostro mondo, oggetto di attenzione particolare; gli altri, numeri spesso considerati come effetti collaterali). E dalla qualità delle cause: Navalny icona universale; Aung San Suu Kyi, attenzione distratta; per Assange, che rischia l’estradizione negli Stati Uniti dove è stato condannato a 170 anni di galera, neanche un appello piccolo così, “Scusate, ma abbiamo già dato”. E, infine e soprattutto, a partire dal giudizio sulla natura stessa dei diritti umani: dove il diritto a manifestare fa, ormai quasi automaticamente, premio su quello di vivere e di non essere uccisi.
A simboleggiare, in modo tragicomico, questo doppio standard, il “forum delle democrazie”, organizzato dall’ottimo Biden (per nostra fortuna, sarà una riunione a distanza) a dicembre: dove, tra gli invitati, spiccano il Brasile di Bolsonaro, i narcostati dell’America centrale, la Colombia di Duque e il Cile di Pinera, la Repubblica democratica del Congo, l’Angola e il Pakistan. E mi fermo qui.
Personalmente, non credo che questa “cecità procurata” sia frutto di un qualsiasi disegno. O che abbia a che fare, con l’egemonia del capitalismo. Penso semplicemente che sia un segnale di stupidità; e nello specifico, della totale, sopravvenuta incapacità di capire l’“altro da noi”. E le sue motivazioni. Ritenendolo così, in definitiva, non solo malvagio ma anche irrazionale.
Dire queste cose non significa “stare dalla parte degli altri”. Stiamo tutti, inutile dirlo, dalla parte della democrazia. E vorremmo che questa crescesse in tutto il mondo, anziché arretrare dappertutto, anche e soprattutto all’interno del nostro mondo. Magari proprio perché la difendiamo in modo del tutto sbagliato…