DI CLAUDIA SABA
Paolo Calissano è morto.
È stato ritrovato senza vita, questa notte, nel suo appartamento di Roma.
Porte e finestre sbarrate, pillole di psicofarmaci sparse ovunque, nessun messaggio che potesse spiegare in qualche modo quanto accaduto.
Prendeva quei farmaci per curare la “depressione”.
Ma proprio la “cura” … lo ha ucciso.
La notizia è arrivata stamattina come un pugno nello stomaco.
Appena letta, ho pensato a quante volte lo avevo visto recitare in tv, in una serie di famose fiction.
Paolo Calissano.
Due occhi limpidi e puri da lasciare senza fiato.
Bello e fragile.
Reso vulnerabile dalla solitudine della droga, un tunnel, da cui difficilmente riesci ad uscire indenne.
Aveva un talento Paolo.
La recitazione.
E non si era improvvisato.
Aveva studiato alla School of Arts di Boston.
Avrebbe potuto dare molto, ma la droga, il male peggiore dei nostri tempi, ha portato via da lui ogni consapevolezza di sé.
L’entusiasmo di mostrarsi sul palco in tutta la sua fragilità e demonizzare quel mostro che si portava dentro.
“Depressione”, malessere dei nostri tempi bui.
È quando la vita vorrebbe prenderti per mano e tu la sfuggi senza un apparente perché.
E poi è la vita, che all’improvviso, non ti segue più.
La vita di Paolo è stata come una discesa in auto senza freni.
La morte, nel 2005, di una giovane donna nel suo appartamento a Genova per overdose di cocaina.
L’arresto, la condanna a quattro anni di reclusione, poi di nuovo positivo alla cocaina dopo un incidente stradale.
Aveva scontato la pena in una comunità di recupero dalla tossicodipendenza.
Libero, era tornato a recitare in teatro al Brancaccio di Roma con il musical “A un passo dal sogno”.
Ma un malore lo aveva costretto a lasciare il palco.
Da anni era seguito da un amministratore di sostegno.
Paolo, 54 anni.
Morto l’ultimo giorno di questo travagliato anno 2021.
Di solitudine e indifferenza.
“Torniamo ad essere persone e a guardarci negli occhi”.
(Barbara Giardiello)
Perché è questo che manca oggi per sentirci “persone”.