UCRAINA, CRONISTORIA DI UNA CRISI


DI ALBERTO BENZONI

La crisi esplode improvvisamente, nella seconda metà dello scorso novembre, con un annuncio drammatico del presidente ucraino Zhelenski. A rischio la stessa indipendenza del paese: nell’immediato, tramite un golpe, previsto per i primi giorni di dicembre, volto alla creazione di un governo fantoccio; nei primissimi mesi del nuovo anno, con una vera e propria invasione.

Nelle settimane successive, la prima ipotesi scompare dalla scena con la stessa vaghezza con cui vi era entrata. Rimane la seconda. Scadenza più vicina, la fine delle Olimpiadi invernali di Pechino. Ma senza impiccarsi a quella data.

Contestualmente, la paternità dell’annuncio passa di mano. Così mentre gli ucraini invitano alla calma, sino a sostenere ufficialmente che lo schieramento russo ai loro confini non sarebbe tecnicamente idoneo, per una serie di motivi, ad attuare un’invasione, sono gli americani, in un rimbalzo di annunci tra Cia e Amministrazione, a tenere viva l’idea di un pericolo imminente, con la prima a esibire prove, peraltro contestate da altri esperti americani. Segue le stesse orme l’Inghilterra fino a portare Johnson a Kiev con una non raccolta ipotesi di un’alleanza militare. Mentre la Nato, per bocca del suo segretario, Stoltenberg, ipotizza scenari, inizialmente molto drammatici, salvo a ridimensionarli successivamente (forse perché il Nostro è impegnato, nel frattempo, nel passaggio alla Banca di Norvegia…).

In quanto alla Russia smentisce sin dall’inizio ogni ipotesi di invasione, sino a catalogarla come “provocazione americana”.

E qui veniamo al secondo atto del dramma; che però assume sempre più i caratteri di una sceneggiata o, per dirla in modo più consono alla situazione, di una rappresentazione dei fatti con intenti prevalentemente propagandistici. In un contesto negoziale in cui Mosca pone condizioni pregiudiziali per l’intesa, insieme formalmente inaccettabili e sostanzialmente irrilevanti; cui gli Stati Uniti contrappongono rifiuti formalmente corretti ma altrettanto irrilevanti.

Stiamo parlando della questione dell’entrata dell’Ucraina nella Nato. Con Mosca che chiede un no formale a questa ipotesi. E Washington che considera questa richiesta irricevibile in linea di principio. In realtà sia i russi che gli americani sanno benissimo che, in linea di fatto, il problema non si pone: nel senso che, oggi e nel futuro prevedibile, non ci sono le condizioni per l’entrata dell’Ucraina nella Nato. E non solo per ragioni di opportunità politica ma perché questa può avvenire solo con il consenso di tutti gli stati membri e in presenza dei necessari requisiti (primo tra i quali l’assenza di conflitti in corso sul piano interno e internazionale).

Continuare a contrapporsi su questo punto non ha, quindi, alcun senso. Anzi è controproducente per ambo le parti. Per la Russia, nel senso di rendere più difficile il ritiro delle sue truppe senza perdere la faccia. Per l’America e ancor più per l’Europa, perché l’alimentare all’infinito un clima di tensione, con l’inevitabile ritorno alla guerra fredda avrà, da qualunque punto di vista lo si consideri, effetti potenzialmente catastrofici.

Se ci si contrappone, allora, è per la platea. Perché, esibite inizialmente le carte, il confronto si svolge su due piani diversi. Il primo, su cui torneremo in conclusione, è quello del negoziato vero e proprio. Il secondo è quello della propaganda in cui ognuno dei due contendenti dipinge l’altro con i colori più neri. E con l’obbiettivo di ricompattare intorno a sé la propria area di riferimento. La Russia, nel caso di Putin. L’Europa in quello di Biden.

Un esercizio, almeno a parere di chi scrive, insieme controproducente e pericoloso.

Il presidente russo vive una situazione contraddittoria. Consultando continuamente i sondaggi (sapete, i sondaggi ci sono anche in Russia…) sa perfettamente di essere personalmente popolare; ma che questa popolarità scende radicalmente se riferita al suo partito e, soprattutto, al suo governo. E che, a minacciarlo politicamente non sono i Navalny ma tutti coloro, comunisti in testa, che contestano non solo e non tanto la corruzione e l’intolleranza del dissenso ma anche, e soprattutto la miseria delle periferie, la carenza di servizi pubblici degni di questo nome e le crescenti disuguaglianze. In tale contesto la denuncia dell’accerchiamento e del nemico funziona eccome. Ma serve semplicemente a guadagnare tempo; senza risolvere i problemi. Una bazzecola per un autocrate onnipotente; ma Putin non lo è. Come, a suo onore, il popolo russo non è un gregge disposto a seguire passivamente il suo padrone.

Nel caso di Biden, l’obbiettivo è più ambizioso. È il famoso raduno delle democrazie. Un fronte compatto, caratterizzato da una totale unità di intenti, volto a rintuzzare i propositi di Mosca: che si tratti di invadere l’Ucraina oppure di seminare la divisione tra gli stessi europei.

All’appello di Biden si poteva dire sì in tre modi: in ordine crescente, condannare Mosca per il suo atteggiamento aggressivo, solidarizzando con l’Ucraina; presentare un fronte unico nel negoziato/confronto con Mosca; inviare a Kiev aiuti militari. Essendo comunque ben chiaro che in caso di invasione – ipotesi che si doveva tenere ben ferma-la risposta dell’occidente non sarebbe andata al di là di sanzioni estremamente punitive.

Complessivamente l’appello non ha funzionato. O, più esattamente, funziona sempre meno. Più gli americani evocano nuovi scenari di invasione imminente, più gli interessati si affrettano a smentirli. E, in questi ultimi giorni, all’unisono; anche nella richiesta di aprire un negoziato diretto tra le due parti. Più Washington invita a non sottostare al ricatto energetico di Mosca, più la Germania tiene aperta l’ipotesi di aprire il North stream e l’Italia chiede assicurazioni alla Russia sulle proprie forniture energetiche. E, infine, cosa in prospettiva ancora più importante, più Washington insiste sulla necessità di mantenere compatto il fronte in attesa di un negoziato di là da venire, più gli europei spingono, in ordine sparso, per un negoziato diretto: e non sui massimi sistemi ma sull’ampio contenzioso aperto tra Ucraina e Russia.

A questo punto, l’Ucraina abbassa, però, ulteriormente i toni. Anzi, li cambia. Sostenendo che annunciare a piè sospinto ipotesi di invasione è pura isteria; e dichiarandosi disponibile ad aprire un dialogo con Mosca sulle questioni in sospeso. Linea, peraltro, sostenuta, più o meno apertamente, da Berlino, Parigi e anche Roma.

Se son fiori, fioriranno. E, a ben vedere, una “regionalizzazione” del negoziato sarebbe una via d’uscita dalla crisi che contenterebbe tutti. Americani e russi che uscirebbero da uno scontro in cui si erano sovraesposti salvando la faccia. L’Ucraina che potrebbe continuare a godere di un’attenzione mondiale di cui ha un gran bisogno. Gli europei, liberi di avere rapporti normali con Mosca. E anche, mettiamola così, tutti gli uomini di buona volontà.