DI ANTONELLA PAVASILI
Era di sabato, ricordo.
Un sabato siciliano di maggio, dolce, tiepido, forse addirittura caldo, luminoso.
Presagio di una bella estate, devo aver pensato.
L’estate dei miei 25 anni ancora da compiere.
Un’età, un tempo, in cui tutto sembrava possibile.
In un’Italia meno consapevole, in cui si parlava poco di politica e molto di calcio, in una Sicilia che provava ad alzare la testa, a difendersi e brandiva il suo vessillo, il suo Grande Uomo.
Il Giudice Giovanni Falcone.
Che strano, pensavo, un giudice così famoso, come se fosse un grande calciatore, un divo del cinema.
Lo pensavo sempre, ogni volta che lo vedevo in televisione, nei pochi telegiornali del palinsesto.
Lo pensavo e un moto di orgoglio mi prendeva, uno strano calore, una sorta di inspiegabile gratitudine.
Quello sguardo un po’ di sbieco, quel sorriso sornione sotto i baffi, e quella luce vivida negli occhi acuti.
Giovanni Falcone, il nostro vessillo.
In un tempo in cui si cominciava a parlar di mafia in un modo diverso, con una specie di sottofondo di speranza.
Giovanni Falcone era il sogno, il nostro sogno.
Il sogno della Sicilia onesta, vessata, martoriata, violentata, che finalmente vedeva l’orizzonte più limpido.
Era di sabato quel 23 maggio e stavo leggendo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.
Mia mamma in balcone, a dar l’acqua alle rose, che in questo periodo colorano e profumano la nostra terra.
Le imposte aperte e il canto degli uccellini, quasi un frastuono, intenso, incessante.
Era quasi sera quando arrivò la notizia.
Una strage, a Palermo.
Hanno ammazzato il Giudice Falcone.
E forse anche la moglie.
E sicuramente alcuni della scorta.
No. No. No. No. No.
Lo hanno fatto saltare in aria, dicono.
Lo hanno fatto saltare in aria.
Proprio così.
Ce lo raccontarono poi le immagini dell’edizione straordinaria del telegiornale.
Immagini di guerra, crudeli, drammatiche.
Un cratere, terra sventrata, l’autostrada a Capaci.
E non era un film, era la mia terra.
E non erano attori quei corpi dilaniati, erano uomini, i nostri grandi, immensi uomini.
Il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Quelle immagini, quelle ricostruzioni e quel dolore insopportabile in mezzo al petto.
Il dolore di tutti i siciliani onesti, degli italiani onesti, di quelli che ci credevano, che ci speravano.
Di quelli che lo amavano il Giudice Giovanni Falcone.
E le lacrime inarrestabili, e lo sguardo attonito di mia mamma e quella sua unica parola.
“Bastardi”.
Era di sabato quel 23 maggio 1992, avevo quasi 25 anni e non riuscivo ancora a capire.
Che avevano perso.
Si, lo hanno ammazzato, lui, la moglie e i suoi agenti e qualche mese dopo avrebbero ammazzato anche l’altro nostro grande uomo, il giudice Borsellino.
Ma avevano già perso.
Come perde sempre chi tocca, stritola, offende il cuore della gente onesta.
Come perde sempre chi eccede con l’arroganza del potere, della violenza.
Come perde sempre chi recide un fiore che morendo sparge ovunque i suoi semi.
Ovunque, nelle strade, nelle scuole, negli uffici di questa nostra terra martoriata, quei semi sono volati via insieme all’esplosivo.
E attecchiscono, e fioriscono, sempre più numerosi, più colorati, più puliti.
Somigliano alle facce dei nostri giovani, i tantissimi giovani che non chinano più la testa, che non hanno più paura, che manifestano, che denunciano.
Perché è vero quello che diceva lei giudice Falcone
“GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO. RESTANO LE LORO TENSIONI MORALI E CONTINUERANNO A CAMMINARE SULLE GAMBE DI ALTRI UOMINI”
E le sue idee Giudice Falcone, continuano a camminare sulle gambe dei nostri giovani.
Grazie, giudice Falcone.
Grazie signora Francesca, Vito, Rocco, Antonio
Ancora grazie, oggi 23 maggio 2022, 30 anni dopo
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