DA REDAZIONE
Inflazione al 115%, salari da fame, mega progetti infrastrutturali che arricchiscono le aziende vicine al governo e saccheggiano il denaro pubblico, denuncia Murat Cinar sul Manifesto. L’altro volto di un Paese che gioca alla guerra, dimenticando la feroce crisi economica che ha in casa.
Il contrario di Fed e Bce: con i prezzi alle stelle, tassi più bassi. Un uso disinvolto di teorie monetarie ad elezioni presidenziali vicine: “Tutto tranne l’austerity”, costi quel che costi alla fine per i cittadini elettori.
Turchia in miseria
Numeri da brivido, dietro l’irriverente titolo “Lato B di Erdogan”, che non è esattamente il volto nascosto del presidente despota, o Sultano, a volerlo c comunque riverire. «La Turchia sta attraversando la crisi economica più profonda della sua storia. L’inflazione è alle stelle, la lira non era stata mai svalutata così tanto e la fiducia sul futuro è così bassa che milioni di giovani vorrebbero lasciare il Paese appena possibile. Di fronte a questo quadro disperato il governo centrale ha deciso di ignorare il problema oppure diffondere menzogne».
Erdonomics e l’etica religiosa
Tutto sembra iniziare nel mese di settembre del 2021 quando la Banca centrale turca ha deciso di abbassare gli interessi seguendo la linea politica del governo: «Gli interessi sono contro l’etica religiosa e distruggono l’economia produttiva», disse il presidente Erdogan. Pochi giorni dopo la lira turca è stata svalutata del 55%. Da allora la moneta continua a perdere il suo valore, gli stipendi valgono sempre meno e il potere d’acquisto è a terra.
Una crisi che viene da lontano
Secondo la professoressa Esra Nur Ugurlu dell’Università di Massachusetts Amherst le radici dell’attuale crisi sono lontane e tra le prime ci sarebbe la «ricetta» del Fondo monetario internazionale applicata quasi al 100% dall’attuale governo sin dall’inizio della sua carriera, ossia dal 2002, Erdogan premier e il suo partito personale, l’Ak Parti, al potere. «L’indebitamento individuale nel 2002 era del 3%, nel 2014 la cifra era arrivata al 20% e il disavanzo primario, nel 2013, era sopra la media degli anni ‘90. Le politiche economiche di Ankara erano basate sull’indebitamento e l’iniezione di denaro proveniente dall’estero. Un sistema economico poco sostenibile».
Poi, 2008, la crisi globale
La crisi globale del 2008, le dinamiche geopolitiche nel Medio Oriente a partire dal 2011, la mancanza di stabilità politica all’interno della Turchia e le sanzioni Usa –secondo Murat Cinar-, sono stati alcuni dei motivi della recessione iniziata nel 2016. Gli investimenti stranieri pian piano si riducevano in parte anche su spinta della Banca centrale Usa a causa della crisi globale, «E Ankara non aveva risposte -sostiene la professoressa Ugurlu-. E gli interventi straordinari, irregolari e non trasparenti della Banca centrale sul mercato locale della moneta straniera hanno provato a rallentare la svalutazione della Lira ma senza successo».
128 miliardi di dollari scomparsi
Una delle campagne politiche più importanti dei partiti d’opposizione era quella di indagare sulla scomparsa dei 128 miliardi dollari dalle casse della Banca centrale, contabilità presente sul sito web dello stesso ente, molto probabilmente venduti per iniettare nel mercato lira turca. Ma su questa vicenda Ankara ha presentato diverse versioni e in contraddizione tra di loro.
E poi, solo cemento
«Le scelte politiche del governo centrale si basano sulla cementificazione. Questo piano viene attuato dallo Stato o con il sistema Built-Operate-Transfer (Bot). Circa il 75% del debito estero è costituito da opere in cemento». E il dato è più che credibile visto che arriva da Ozgur Karabulut, presidente generale del principale sindacato dei lavoratori edili, Dev-Yapi-Is. Secondo Karabulut, in tutto il Paese, sono circa 40 aziende edili che lavorano direttamente con Ankara e portano avanti numerose opere di cementificazione, creando una sorta di lobby/monopolio.
Monopolio da schiavisti
«Nei cantieri di queste aziende, le condizioni di lavoro sono terrificanti. Dal vitto all’alloggio, dai contratti di lavoro fino al sistema dell’esternalizzazione siamo davanti a una situazione drammatica», la rischiosa denuncia da fare in casa. Secondo Karabulut la scelta di Ankara di investire sul cemento aveva tre principali motivi: trasformare i contadini in operai edili creando un benessere non sostenibile, ottenere più voti con lo sciovinismo delle grandi opere e incassare liquidità da iniettare nel sistema dell’assistenzialismo.
Un milione e mezzo di operai edili
«Il progetto non ha retto. Oggi, anche se il Paese è un cantiere a cielo aperto, contiamo circa 1,5 milioni di operai edili. Nel 2016 erano circa 2,5 milioni». Karabulut denuncia che i piani di cementificazione prevedevano la trasformazione in zona edile di boschi incendiati, siti archeologici e coste. Un piano economico che ha devastato l’ambiente. Secondo Karabulut, in Turchia, per un lungo periodo gli investitori stranieri hanno acquistato molti immobili costosi, una scelta politica che non dava soluzioni alle vere esigenze del popolo.
La “gentrificazione” urbana
Il progressivo cambiamento socioculturale di un’area urbana da proletaria a borghese a seguito dell’acquisto di immobili, e la rivalutazione sul mercato, «hanno cambiato i profili demografici e sociologici delle città. Le zone centrali, e non solo, di varie metropoli sono state trasformate in grandi blocchi di cemento in vendita. A questo va aggiunto il piano di costruzione di aeroporti inutili, ponti inutilizzati e ospedali che lavorano con la garanzia del numero dei pazienti. In certi casi abbiamo notato che con l’affitto annuale di alcuni ospedali è possibile costruire nuovi ospedali».
Saccheggio di denaro pubblico
Un saccheggio del denaro pubblico per mantenere il potere economico e politico. «Oggi i costi del settore edile sono aumentati del 300%, tuttavia i nostri operai lavorano con gli stipendi del 2017. I datori di lavoro cercano di non pagare il Tfr, gli straordinari o le varie indennità. Infine, il fatto che solo il 10% dei lavoratori sia sindacalizzato rende più difficile la battaglia».
Capitalismo da rapina
In Turchia, nel 2001, circa 5,5 milioni di persone avevano un lavoro con un contratto regolare. Oggi il dato supera i 15 milioni. Tuttavia, secondo l’Istituto di Previdenza sociale (Sgk), nel 2020 più di sei milioni lavoravano con il salario minimo che arriva a circa 355 euro. Secondo il sindacato confederale Turk-Is, in Turchia una famiglia composta da quattro persone deve spendere almeno 350 euro al mese per non morire di fame, quindi il salario minimo garantito basta solo per coprire le spese vitali. L’affitto, il trasporto oppure lo studio, per quelle sei milioni di persone, restano le spese ancora da affrontare. Sempre secondo Turk-Is restare al di sopra del limite della povertà significa guadagnare almeno 1.137 euro.
Dramma e scarica barile
«Di fronte a questo quadro drammatico, Ankara ignora il problema o trova il colpevole altrove», denuncia ancora il Manifesto. Secondo il governo centrale la crisi economica sarebbe conseguenza esclusiva di quella globale causata dalla pandemia e della guerra in Ucraina; l’aumento dei prezzi di prima necessità sarebbe colpa di speculatori; la disoccupazione è in crescita perché la popolazione è “choosy”, troppo esigente. «E se c’è qualcuno che se ne vuole andare all’estero per trovare un lavoro migliore chi se ne frega, se ne vadano pure», marzo 2022, presidente della Repubblica.
Fuga della popolazione giovane
Le ricerche dimostrano che la popolazione tra i 18 e 29 anni vuole lasciare la Turchia per prendere al volo la prima proposta di lavoro all’estero. Secondo uno studio dell’Università di Yeditepe il 76%, per quella della fondazione tedesca Konrad-Adenauer-Stiftung circa il 73%. «Significa che la Turchia, oltre a perdere le sue migliori menti per la repressione politica schiacciante oggi perde anche i suoi giovani per una depressione politica e sociale».
Editoriale da Remocontro
22 Agosto 2022