DI ANTONELLO TOMANELLI
Fu il bisogno di dormire e il rifiuto di passare la notte all’addiaccio la causa della morte di quei ragazzi sepolti sotto le macerie del terremoto che fece crollare la casa dello studente dell’Aquila nell’aprile 2009. Non è una pessima battuta, ma ciò che in pratica dice la sentenza del Tribunale dell’Aquila, che ha riconosciuto in quel comportamento una colpa. Ha quindi ridotto il risarcimento, dopo aver comunque individuato i principali colpevoli nei costruttori, che avevano edificato con materiale scadente, e in Genio Civile e Prefettura, che non avevano controllato a dovere.
Il Tribunale ha attribuito a quei ragazzi deceduti un concorso di colpa. Vediamo come e perché.
L’Aquila era stata interessata da uno sciame sismico di lieve entità sin da gennaio, che col passare del tempo crebbe di intensità. Parliamo di un paio di centinaia di scosse. Fino ad arrivare a due distinte scosse, una nella serata del 5 aprile, l’altra alle 01 circa del 6 aprile. Alle 3.32 vi fu quella devastante, di magnitudo 6 della scala Richter, che fece crollare gran parte dell’edificio, che se fosse stato costruito a regola d’arte sarebbe rimasto in piedi. Il tutto dopo che la stessa Protezione Civile aveva diramato un tranquillizzante comunicato.
Ora, attenzione al passo decisivo della sentenza. «È fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime, costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile, concorso che tenuto conto dell’affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell’edificio di resistere al sisma, per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto, può stimarsi nella misura del 30 per cento».
Il passo, più che poco logico, contiene un vero ossimoro. Dice che i morti avevano fatto giusto affidamento sulla stabilità di un edificio in cemento armato (e ci mancherebbe altro) al quale mesi di scosse non avevano nemmeno fatto il solletico, ma non erano scappati dopo le due precedenti scosse. Di qui la loro colpa. In pratica, il giudice ha scritto che è comprensibile che quei ragazzi siano rimasti in casa, ma hanno sbagliato a rimanere in casa.
Non solo. La sentenza sembra ignorare quelle che sono le caratteristiche fondanti il concetto giuridico di colpa. In estrema sintesi, un comportamento è colposo o quando l’autore vìola norme giuridiche o tecniche o ordini di un’autorità, o quando è improntato a negligenza, imprudenza o imperizia. In ogni caso, l’evento, per essere imputato a titolo di colpa, deve essere sempre prevedibile.
Se io guido l’auto con le gomme consumate, posso prevedere che se devo improvvisamente frenare perché trovo un veicolo che mi sbarra la strada, non mi fermo in tempo. Se un poliziotto esce di casa dimenticandosi sul tavolo la pistola d’ordinanza carica, può prevedere che se il proprio figlioletto ci gioca assieme all’amichetto, può partire un colpo che ammazza uno dei due. Insomma, eventi certamente non voluti, ma prevedibili. Questa è l’essenza della colpa.
Il terremoto è l’evento naturale imprevedibile per antonomasia. Uno sciame sismico si vede quando inizia ma non si sa mai quando finisce. Come potevano quei ragazzi prevedere che dopo le due scosse di poche ore prima, sarebbe arrivato il colpo di grazia, quando per mesi la terra aveva tremato e l’edificio non aveva subito il minimo danno? Come potevano non fidarsi dei tranquillizzanti proclami della Protezione Civile?
Tra l’altro, gli esperti insegnano che il miglior modo per uscire indenni da un terremoto è proprio quello di rimanere in casa, perché le tradizionali vie di fuga, come l’ascensore e le scale, possono rivelarsi trappole mortali. Accorgimenti come rimanere contro un muro portante o sotto un’architrave, o anche sotto un robusto tavolo, in molti casi evitano la morte.
A ben vedere, proprio quello che secondo la migliore esperienza contribuisce a salvare la vita, dal Tribunale dell’Aquila è considerato «condotta incauta»; e ciò che in quei casi viene sempre sconsigliato, un comportamento da seguire.
Una sentenza-paradosso.