DI VIRGINIA MURRU
Ismail Meshal è semplicemente un docente afghano che ha deciso di opporsi all’oppressione dei Talebani, al loro inaudito strapotere, all’ossessione nei confronti dei diritti delle donne, le quali, nel volgere di due anni, sono state lentamente emarginate, con misure che non sembrano neanche possibili nel terzo millennio.
Il professore è stato di recente invitato in una trasmissione di Tolo TV, e davanti alle telecamere ha espresso tutto il suo sdegno, la sua rabbia, per la repressione sistematica contro i diritti umani delle donne e le bambine, alle quali è vietata l’istruzione, l’accesso al lavoro e ogni forma di attività sociale in cui possano degnamente offrire il loro contributo.
Il docente universitario, Ismail Meshal – che ha formato, attraverso corsi di giornalismo, centinaia di studenti, si è presentato davanti alle telecamere con i suoi titoli di studio, in parte conseguiti in India – e mentre parlava travolto dall’emozione e dall’indignazione, li faceva a pezzi dichiarava:
“Non mi servono questi diplomi e attestati di dottorato, se questo Paese non ha spazio per l’Istruzione e l’Educazione, se mia sorella e mia madre non possono studiare. Questo non è un Paese per l’Educazione da quando ci sono i Talebani. E’ stato vietato alle donne ogni accesso agli Atenei, io non accetto questo stato di cose.”
Il divieto per le donne e le bambine di accedere all’istruzione è una norma promulgata dall’esecutivo di Kabul, nella fattispecie dal ministro titolare dell’Educazione, Neda Mohammad Nadeem. L’ennesimo oltraggio alle donne, viste con la consueta logica del fanatismo religioso. Ma lo stesso docente Ismail Meshal, ha tenuto a sottolineare in diretta TV, che non vi è alcun riferimento ad una simile repressione nel Corano.
Inutili anche le proteste del Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, che ha esortato il governo afghano a rispettare i diritti umani, così come gli stessi Talebani avevano promesso dopo il loro insediamento, all’indomani del Ferragosto 2021. Nessuno ci aveva creduto, in primis gli afghani, che avevano già avuto modo di passare sotto i loro cingoli qualche decennio prima. Si sono ripresi il Paese due anni fa senza sparare un colpo, ma subdolamente, sapendo che avrebbero abusato in lungo e in largo di un popolo stremato da decenni di guerre e occupazione straniera. Avevano annunciato che ci sarebbe stata una svolta con la rinascita dell’Emirato Islamico. Ma gli intenti erano altri.
Dopo la partenza dei contingenti di pace nel Paese, che non è servito a nulla (solo agli americani è costato 83 mld di dollari), anche gli americani nel settembre del 2021 hanno completato il loro ritiro da Kabul. I talebani non aspettavano altro e hanno annunciato un governo ad interim, guidato da Mohammad Hasan Akhund. Il resto è oppressione, storia tristemente nota al popolo afghano.
Non è servito neppure il sostegno di Amnesty International, che è intervenuta dopo tante proteste in piazza da parte delle donne a Kabul, sempre represse dalle forze dell’ordine.
Uno dei tanti rapporti sulla condizione delle donne in Afghanistan è stato intitolato “Morte al rallentatore: le donne e le bambine sotto il regime dei talebani”.
L’annientamento dei loro diritti è cominciato proprio nell’agosto di due anni fa, quando il Paese si è svegliato ancora una volta in un incubo di repressione, attuato con il consueto fanatismo religioso dai talebani, che celano dietro supposti principi religiosi l’odio verso la presenza della donna nella società.
La violazione dei diritti all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento, si manifesta anche tra le mura domestiche, dove non di rado si interviene con rigore inaudito, allorché vengono meno alle norme ossessive di un regime che non sa occuparsi del benessere del Paese, ma orienta l’attenzione su un focus di moralizzazione della quale la popolazione potrebbe benissimo fare a meno.
La donna vive ancora e sempre una condizione di subalternità nei confronti dell’uomo, arbitro del suo destino, nel corso della sua intera esistenza. Un carcere a cielo aperto, un abominio sotto gli occhi del mondo che segue altre concezioni di civiltà. Anche nei paesi musulmani nei quali l’aspetto religioso condiziona fortemente quello politico. L’Afghanistan vive in una sorta di parossismo e ortodossia, che vanno oltre le stesse indicazioni del Corano.
E così continua ad imperversare il dominio sulle donne, purtroppo non in grado di arginare il flusso di violenza che le schiaccia, non sono libere di operare scelte che implichino la volontà di seguire i loro orientamenti, sia per quel che concerne le loro inclinazioni negli studi o nel lavoro, che sui sentimenti. Costrette ancora ad unirsi a uomini maturi ancora bambine, e la ribellione, secondo i rapporti di Amnesty, viene punita con arresti, carcere, torture e perfino sparizioni, soprattutto se partecipano a proteste di piazza contro il regime.
Ha dichiarato al riguardo Agnes Callamard, Segretaria Generale di Amnesty:
“A poco meno di due anno dalla presa del potere dei talebani, le loro spietate politiche stanno privando milioni di donne e bambine del diritto a vivere in modo sicuro, libero e prosperoso. Questa soffocante repressione aumenta ogni giorno. La comunità internazionale deve pretendere urgentemente che i talebani rispettino i diritti delle donne e delle bambine.”
Ismail, l’irriducibile professore dell’Università di Kabul non ci sta a vivere in una società di donne schiave di una brutale dittatura religiosa. Ci sono anche altri 40 docenti che si sono dimessi dai loro incarichi all’Università di Kabul. Se gli uomini difenderanno le donne e le sosterranno nelle loro lotte, si potrà sperare in un futuro migliore.
Fino a quando un uomo saprà ergersi con coraggio davanti all’insidia di una dittatura, anche la più oltraggiosa e brutale verso i diritti umani più elementari, ci sarà speranza per un popolo oppresso e succube delle scelte di pochi.