DI ANTONELLO TOMANELLI
Spesso rinunciamo a fare o dire cose che nevitabilmente ci calerebbero in una situazione di grande imbarazzo. Ma quando l’istinto vince sempre sul pudore, allora significa che ti chiami Zelensky.
Per la seconda volta consecutiva, l’Academy Awards ha negato al presidente ucraino l’apparizione alla Notte degli Oscar. Il suo produttore, Will Packer, ha motivato il rifiuto considerando quell’invito inopportuno, perché avrebbe dato al pubblico l’impressione che la soglia di attenzione verso i popoli in guerra si alza soltanto quando le vittime sono bianche.
Molto diplomatico Will Packer, e certamente molto più intelligente di Zelensky, il quale difetta persino di quel minimo di intuito che avrebbe indotto chiunque a concludere che difficilmente un uomo come Packer, rigorosamente di colore, avrà digerito le svastiche sulle bandiere del battaglione Azov e le Avenue ucraine dedicate a Stepan Bandera.
Infatti, a Zelensky non è bastato il niet dell’anno scorso, peraltro proveniente sempre dallo stesso Packer. Probabilmente Zelensky ha fatto troppo affidamento sull’endorsement di un attore scocomerato del calibro di Sean Penn, fattosi notare più che altro per aver più volte scambiato le donne per sacchi da boxe, chiesto pubblicamente come possa un figlio di puttana come il produttore messicano Inarritu possedere la green card, ed aver intervistato lo stragista narcotrafficante El Chapo prima che venisse catturato e rinchiuso per sempre nel penitenziario federale di massima sicurezza del Colorado.
Il documentario girato a Kiev da Sean Penn rappresenta il conflitto russo-ucraino dal punto di vista esclusivo di Zelensky. Un po’ poco per entrare nel cuore degli americani, ormai stufi di vedere parte dei propri soldi sperperati per armare gli ucraini in una guerra contro un nemico che non si può vincere.
Ma questo, a Zelensky, non importa, impegnato com’è nell’implorare denaro, armi e il dono dell’ubiquità rimanendo con la faccia seria. Uno dei peggiori difetti di Zelensky, e di quelli come lui, è credere che la perdita del senso della vergogna sia come un virus che infetta la mente e la coscienza di qualsiasi interlocutore.
Ma non è così. Lo dimostra il rifiuto dell’Academy di ospitare il suo discorso. Insomma, l’arte è solo arte, e il cinema solo cinema. E alla potentissima Hollywood non si può chiedere di versare urina in una tazza di buon tè.