DI VIRGINIA MURRU
La verità su questa immane tragedia è emersa dai profondi fondali dell’ oblio dopo decenni, almeno mezzo secolo dopo l’olocausto degli ucraini, abbandonati dentro il filo spinato dell’indifferenza e dell’inedia. Ma dietro l’apparente disimpegno di Mosca, negli anni ’30, verso il destino di un popolo che semplicemente voleva vivere alla luce dei propri diritti umani e civili, c’era ben altro.
E’ nota come la grande carestia, in ucraino ‘holodomor’, che significa condannare a morte per fame, per mancanza dei fondamentali mezzi di sussistenza (‘holod’ in ucraino significa fame, e ‘mor’ peste), e fu voluta e tramata dal regime staliniano negli anni 1932-33. Si è stimato che, a causa di queste oscure trame del totalitarismo sovietico, siano scomparse per mancanza assoluta di beni alimentari, intorno ai sei milioni di persone (stime per difetto, dato che diverse fonti ne indicano anche di più), che poi corrisponderebbe a circa un quinto della popolazione dell’Ucraina negli anni ‘30. Alcune regioni di questa estesa nazione furono colpite in maniera particolarmente pesante dalla carestia, e si tratta del Kyiv, Zhytomyr, dove perirono oltre il 50% degli abitanti.
Le altre regioni furono il Kharkiv, Sumy, Cherkasy. Il processo avviato da Stalin sulla collettivizzazione forzata delle aree rurali, aveva causato, in Unione Sovietica, circa dieci milioni di morti, in soli 4 anni. Su queste stime non si va per pressappochismi, dato che fu lo stesso dittatore a confidarlo a Churchill tanti anni dopo. Secondo la Corte d’Appello di Kiev, i decessi per causa da imputare alla carestia, sono stati 10 milioni. Il sud dell’Unione Sovietica sul versante agricolo era l’area più fertile e produttiva, soprattutto per quel che concerne le colture di cereali. E l’Ucraina era in assoluto la migliore, dato che riusciva a soddisfare almeno il 50% il fabbisogno dell’impero sovietico. Stalin dispose che le terre dovessero essere collettivizzate tramite cooperative agricole ( i famosi kolchoz), o convertite in aziende di stato ( sovchoz). Entrambe le strutture dovevano impegnarsi a praticare prezzi imposti dal governo centrale.
Si sanciva così la fine della proprietà privata, in nome di un piano politico basato sulla pianificazione, e sotto il controllo dello stato. L’Ucraina oppose una strenua resistenza a queste direttive imposte da Mosca, i contadini tentarono di rivoltarsi, ma bisogna dirlo: non solo in Ucraina. La risposta del regime fu la ‘dekulakizzazione’, ossia la deportazione in massa dei contadini rivoltosi nelle regioni artiche; agli estremi c’erano le condanne a morte. E le cosiddette ‘purghe’ furono davvero tremende, soprattutto alla fine degli anni ’20. I contadini ucraini, per evitare le conseguenze della collettivizzazione e le requisizioni tramite le quote stabilite dal governo di Mosca, abbatterono milioni di capi di bestiame, riducendo le risorse zootecniche alla metà. Ma si argomenta intorno a decine di milioni di capi, tra cavalli, bovini, caprini..
L’impianto strutturale dell’economia pianificata, partiva dalle classi meno abbienti della società sovietica, e utilizzava mezzi drastici e spietati, come la carestia, quale strumento (di ricatto..) per una ‘riforma’ di classe nel mondo rurale. E infatti questo sterminio provocato dalla carestia, indotta e sfruttata dal regime, interessava in modo particolare le regioni a vocazione agricola, con alta produttività di cereali.
Sistemi che rientravano in obiettivi che dovevano portare avanti l’ortodossia del socialismo, secondo intendimenti e applicazioni che nulla avevano a che fare con la giustizia sociale delle classi meno abbienti, dato che proprio loro pagarono il tributo più drammatico in termini di vite umane, a questo disegno politico tracciato, già fin dagli esordi, su fondamenta di violenza e oppressione. Stalin, in Ucraina, intendeva prima di tutto reprimere ogni ambizione indipendentista, che anche all’epoca era forte. Si trattava di un piano a lungo termine, che non doveva destare scalpore, e mirava ad impedire che l’Occidente puntasse il dito su Mosca, attribuendo alla politica sovietica la responsabilità del dramma di questo popolo.
Dunque Il governo di Mosca incentivò fenomeni in apparenza naturali, e permise che portassero avanti obiettivi che rientravano in un programma politico ben preciso. In realtà la degenerazione del fenomeno, determinò una vera e propria ‘Shoah’ nel popolo ucraino inerme, incapace di porre fine a quel finissimo intrico d’intenti, dove a monte vi erano strategie ben calcolate. Impedire al nazionalismo ucraino rivendicazioni e insurrezioni pericolose, destabilizzanti per la politica economica di Mosca, era fondamentale all’epoca. In Ucraina fermentavano ideali d’indipendenza, che dovevano essere stroncati prima che il fuoco dell’autonomia divampasse. Tenere la situazione sotto controllo, impedendo che qualche miccia innescasse meccanismi che avrebbero potuto creare effetti a catena, anche in altri stati sovietici, era uno dei fini essenziali da perseguire con ogni mezzo; anche con la repressione più brutale.
Agli studiosi, per ovvie ragioni, sono mancati i mezzi d’indagine sulla carestia che interessò gran parte del territorio ucraino (e Caucaso); i veti del regime sulla verità di questa tragedia, hanno sempre impedito a chi intendeva fare chiarezza in occidente, di accedere a documenti importanti per gli opportuni rilievi storici. Ma era noto che in un decennio, tuttavia, l’incremento demografico in Unione Sovietica, dopo il 1925, era stato intorno al 20%, mentre in Ucraina il processo risultò inverso: la popolazione, era diminuita di circa il 10%.
Il prof. Giovanni Gozzini, docente di Storia contemporanea e Storia del Giornalismo, scrive nella sua opera ‘Il sistema dei lager in URSS’, che il regime sovietico intendeva colpire i contadini per portare avanti il suo progetto di ‘ingegneria sociale’. Solo in epoca recente, storici e studiosi, hanno potuto avere accesso agli archivi che conservano documenti importanti sui due terribili anni nei quali la popolazione ucraina era stata messa in ginocchio. A partire dal 2005, l’Ucraina, ha permesso agli studiosi stranieri la consultazione d’importanti documenti tenuti negli archivi del KGB, che rivelano senza ombra d’equivoco, le tattiche politiche volte a sedare ogni movimento rivoluzionario-indipendentista del popolo ucraino. Da questi documenti, divulgati in tutto l’Occidente, risulta evidente e chiaro, che la carestia è stata favorita e sfruttata volutamente, per piegare ogni possibile protesta nei confronti del governo centrale.
Se ancora oggi gli ucraini nutrono sentimenti di rancore e diffidenza nei confronti della Russia, hanno le loro ragioni, giustificate da una memoria che si porta dietro milioni di vittime, sacrificate ad un regime reazionario e oppressivo, che il popolo non poteva legittimare come fosse la migliore sorte che potesse capitargli.
La carestia dunque, non era stata propriamente un fenomeno ‘naturale’, era stata indotta con una serie d’interventi che avevano una logica devastante, perché si attuavano con atti coercitivi che finivano in vere e proprie rapine di beni essenziali per la sopravvivenza. L’introduzione delle cosiddette ‘quote’, destinate allo stato con misure di requisizione, ossia di sottrazione di parti consistenti di raccolto, erano insostenibili, insieme a quelle relative ai generi alimentari, al divieto di vendita di generi di prima necessità. Erano tutti segni eloquenti di un disegno volto a stremare la popolazione. E in tante regioni, l’Ucraina, divenne un grande, immenso lager, controllato peraltro dalle forze armate, che avevano l’ordine di fare applicare le direttive di Mosca. Il governo centrale mirava alla collettivizzazione, che limitava i diritti del singolo e annullava la proprietà privata, strategia fondamentale del regime, che considerava queste misure ‘sacre e intoccabili’. Chi contravveniva alle leggi emanate per tutelare la struttura fondante del socialismo sovietico, incorreva in pene severissime, che finivano in condanne ai lavori forzati, fino alla pena capitale.
L’imposizione delle quote con la requisizione dei beni agricoli, per l’Ucraina era insostenibile, dato che non permetteva al popolo di sopravvivere, lo teneva in uno stato di fame e inedia. E quando per pura reazione di sopravvivenza in alcune regioni non fu possibile tenere fede al meccanismo perverso delle quote, sul popolo già sofferente arrivarono le ‘punizioni’ del regime, che incentivò l’entità delle quote e requisizioni. In concreto stremando i contadini ancora di più, fino a rendere un popolo talmente asfittico, da portarlo a morte per l’assenza di beni primari per la sussistenza. L’ultimo atto criminale di quel movimento di leggi promulgate per un assedio senza scampo, fu il divieto assoluto agli ucraini, disperati per la mancanza di risorse alimentari, di spostarsi in altre zone meno colpite, ritenute più ‘virtuose’ dalle autorità politiche. Non si potevano acquistare biglietti per i treni, si bloccarono con le forze armate perfino i sentieri che avrebbero potuto condurre fuori da quell’inferno: si doveva morire. Scelte criminali, firmate non solo da Stalin ma anche dal signor Molotov..
Intanto le esportazioni di grano aumentavano di anno in anno, e continuò anche nel periodo critico di riferimento relativo alla carestia, ossia tra il 1932-33, realtà che di fatto negava davanti agli osservatori internazionali, l’esistenza stessa della carestia.
E infatti la tragedia era ben lontana dall’essere valutata per quella che era, causata direttamente da leggi criminali, approvate e fatte eseguire da quelle autorità che non si fermavano davanti a nulla, pur di difendere un ideale politico che tutto era tranne che riscatto degli umili.
Un cronista britannico dell’epoca, Gareth Jones, che era riuscito a raccogliere le testimonianze dirette dei contadini ucraini, nei suoi ‘reportage’, riportava questi resoconti: “Il governo centrale ci obbliga a versare troppe tasse, non riusciamo a pagarle, non abbiamo pane né patate, muore il bestiame insieme a noi. Ci stanno ammazzando”.
Impossibile portare avanti con oneri così insopportabili la politica economica di Mosca, basata sulla collettivizzazione. Il cronista britannico si distinse dagli altri giornalisti occidentali, perché egli entrò nella tela del ragno molto da vicino, proprio attraverso le testimonianze della gente disperata, documentò la potenza di quel raggio d’azione deleterio, e ne analizzò le cause senza riserve. E il suo ‘j’accuse’ fu irriverente e senza timore. Il mondo e la storia devono molto a questo intraprendente e coraggioso giornalista, alle sue ricerche meticolose, al suo amore per la verità. Egli parlò delle responsabilità di Mosca, e tracciò una mappa assolutamente attendibile della verità di quell’olocausto, mentre il governo centrale si adoperava per renderlo ancora più crudele, lasciando la popolazione senza soccorso, strappando anche l’ultimo pezzo di pane dai denti della gente che crollava nelle misere case e nelle strade. In pochi anni tante regioni ucraine si riempirono di morti, che non venivano neppure seppelliti, perché non vi erano né forze né mezzi. Un lager a cielo aperto.
Una vergogna infame. Ci sono voluti oltre sessant’anni per venire a capo di una tragedia immane, e solo di recente il Parlamento europeo ha dichiarato la tragedia ucraina ‘crimine contro l’umanità’.
Ma le resistenze contro la verità continuano ancora oggi, la Russia, per esempio, impedisce alle Nazioni Unite di rendere ufficiale la memoria storica relativa al ‘genocidio’ della popolazione ucraina. E la verità è stata negata, o volutamente ignorata anche da grandi rappresentanti della cultura del novecento: scrittori, storici, studiosi. Non tutti sono concordi nell’attribuire a Stalin le sacrosante responsabilità, il sacrificio di milioni di vittime, voluto e calcolato per portare avanti i piani quinquennali di un’economia pianificata. Economia che non esprimeva alcun progresso in termini economici e sociali; dopo decenni di ortodossa applicazione (sarebbe meglio dire ‘distorta’ applicazione dell’ideologia socialista), del radicalismo socialista. Un programma economico portato avanti da una casta di tecnocrati, che sperperavano risorse ingenti in propaganda, ed erano spinti da parossismi ideologici che sconfinavano nel puro fanatismo.
Lo storico inglese Robert Conquest, è un altro paladino della verità che riguarda il genocidio del popolo ucraino negli anni 30’. Egli ha ricostruito la carestia pianificata da Stalin, che afflisse questo popolo, denunciando anche le responsabilità di tutti coloro che, in Occidente, non avevano fatto abbastanza per avvicinarsi obiettivamente a questa tragedia, intervenendo per limitarne la portata.
Nel 2007 ha pubblicato un saggio ‘I dragoni della speranza’, dove traccia un profilo dei regimi totalitari del novecento, rivolgendo particolare attenzione a quello sovietico. In uno dei capitoli del libro, titolato ‘Un branco d’impostori’, parla proprio delle distorsioni di questa memoria, infangata dal silenzio e dalla reticenza, e perfino della manipolazione della verità che riguarda il dramma del popolo ucraino.
L’holomodor, ormai ha contorni molto precisi, che non sono analisi storiche fini a se stesse, perché finalmente ci sono i riscontri degli archivi aperti in Ucraina, e l’imponente mole di documenti a testimoniare i fatti, resoconti di una verità finalmente alla portata di tutti. Purtroppo è una verità giunta in fatale ritardo, quando il destino di troppe vittime si è compiuto davanti all’indifferenza e ignoranza di chi invece avrebbe potuto agire.
Conquest si scaglia contro i grandi intellettuali che, non solo non hanno contribuito alla ricostruzione dell’olocausto ucraino, ma hanno manipolato la verità fino a negarne perfino l’esistenza. Questi personaggi sono niente di meno che Charles Percy Snow, Simone De Beauvoir, John Kenneth Galbrait. Ma c’è anche di più. Aleksandr Solženicyn, un dissidente che aveva sempre denunciato all’Occidente gli abusi del regime, si allineò nelle fila dei ‘negazionisti’, e non riconobbe mai l’olocausto degli ucraini.
A queste voci autorevoli che seppero denunciare l’ipocrito mondo intellettuale degli ignavi, che tanto male sanno portare a volte alle tragedie umane, se ne aggiunsero altre. In Italia, l’ex direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino – che di Unione Sovietica se ne intende dato che è stato inviato per il giornale negli anni ’70 – denunciò un certo tipo di ‘editoria della manipolazione’, in riferimento a questi fatti storici, che da sempre hanno lasciato poco spazio all’incertezza sulle responsabilità del regime sovietico.
I negazionisti nel mondo del giornalismo e della cultura, in occidente, sono stati tanti, un nome esemplare per tutti: Walter Duranty, inviato del New York Times, al quale nel 1932 fu assegnato il Premio Pulitzer..
I cosiddetti negazionisti furono davvero tanti, coinvolti in un vergognoso impegno intellettuale volto a tenere sotto la polvere della storia, fatti sconcertanti. In rotta di collisione contro questa categoria di personaggi della cultura, è stato George Orwell, scrittore inglese che attraverso le sue opere, ha denunciato questo ‘pilatismo’ pericoloso, contro ogni logica di coerenza e verità.
Orwell dà un’importante testimonianza della sua lotta in sordina contro il negazionismo storico, sulla tragedia che ha interessato il popolo ucraino, nel romanzo ‘La fattoria degli animali’, nel quale conferma non solo le sue qualità letterarie, ma anche quelle di studioso del fenomeno storico e politico legato al regime staliniano. Orwell ha raccontato in maniera appena allusiva, la tragedia dell’Holodomor, e poiché la verità, quando diventa scomoda e non è condivisa nonostante l’evidenza, è difficile da accettare, egli incontrò ostacoli quasi insormontabili nel versante dell’editoria per la pubblicazione dell’opera.
Per anni Orwell denunciò la complicità della società inglese, compresi grandi esponenti del mondo della cultura e dell’arte, con il regime sovietico. Gridò ai quattro venti, con grande sdegno, che si parlava in tutti i giornali della carestia in India, ma non si spendeva una parola su quella tragica che colpiva l’Ucraina, definendola una cospirazione autentica, oltre che complicità colpevole davanti alla storia e all’Umanità.