BREXIT, CUI PRODEST? IL 60% DEI BRITANNICI RIENTREREBBE IN UE

DI VIRGINIA MURRU

 

La Brexit da due anni è entrata a pieno regime e ha riportato nel Regno Unito la totale autonomia, non vi sono vincoli con il resto dell’Europa, e il Canale della Manica è tornato ad essere un confine ben definito, uno spartiacque per tenersi a debita distanza dal vecchio Continente.

Questa sembrava l’aspirazione, almeno per circa la metà dei britannici (nel referendum del 2016 vinsero i Leave col 52%), ossia i più riottosi nei confronti di Bruxelles, l’Unione europea era vista ormai con sospetto, una mano lunga sui conti del Regno. E poi troppi ‘diktat’ per la tendenza degli inglesi a farsi gli affari propri, insofferenti quali sono verso le ingerenze sugli assetti politici ed economici.

Westminster doveva essere una roccaforte d’indipendenza, non doveva più esserci l’obbligo di recepire la normativa riguardante l’appartenenza ad un Organizzazione sovranazionale. Churchill, uno dei padri fondatori dell’Unione, avrebbe obiettato sulla smania di fuga volta ad inseguire l’ambizione di uno splendido isolamento? Non importava a quei britannici insofferenti, che il 23 giugno 2016 scelsero comunque, senza tentennamenti, di lasciare l’Ue.

Nessun sentimentalismo, si inseguiva un sogno di rinascita, c’erano grandi aspettative sul dopo Brexit, si pensava che avrebbe riportato la Gran Bretagna, se non proprio ai fasti del Commonwealth, almeno ad una prosperità che avrebbe fatto brillare la City e la gente di Sua Maestà. E la sterlina avrebbe esultato, giacché negli anni precedenti alla Brexit cominciava a tentennare.

Insomma, bisognava rompere quel legame. Considerata ormai come una pastoia ai piedi, l’Ue rappresentava una sorta di sudditanza dalla quale era necessario disimpegnarsi.

Ma per quanto (per natura) gli inglesi siano maestri nel tenere salde le redini del proprio destino – la storia ce lo insegna – non sono nemmeno infallibili, e non di rado l’ambizione può indurre a scelte fuorvianti, se non si calcola bene la distanza tra il volere e la realtà conseguente. Una scommessa, la Brexit? Certamente, ma dopo due anni risulta inesorabilmente persa. E l’orgoglio dei sudditi di Carlo III pure.

Eppure, la Scozia non ne voleva sapere di quel divorzio, Nicola Sturgeon si era ribellata e pestava i piedi, inveiva ancora su Londra e le sue imposizioni, era perfino disposta a stringere patti separati con Bruxelles, ma l’Ue prese atto degli esiti della consultazione referendaria, e non intendeva esacerbare le tensioni.

Così è finito un sogno di Unione, la Gran Bretagna è stata uno degli Stati cardine, una colonna, anche sul piano geopolitico. Ma tant’è: anche gli ideali di condivisione possono frantumarsi quando manca la coerenza e la fedeltà a principi comuni.

E ora siamo alla concretezza dei fatti. Secondo i dati macro, la Gran Bretagna, sul piano economico, non se la passa affatto bene, numeri alla mano. L’economia dopo la Brexit non ha mai decollato, la sterlina ha perso parte del suo prestigio, e secondo i dati dell’Istituto per gli studi internazionale (ISPI), l’uscita dall’Ue ha causato notevoli problemi al Pil britannico.

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto una flessione dello 0,6% del Pil, e secondo le previsioni sarà l’unica economia avanzata ad andare in recessione nel 2023.

Intanto è già in corso un aumento del carico fiscale, che sarà il più duro dal dopoguerra,  salirà infatti dal 36% nel 2022, al 37,5% del Pil nel 2024. Misure necessarie per colmare il gap di 55 miliardi di sterline nei conti pubblici. Ossia un budget che dissanguerà le famiglie, ma a quanto pare non esistono bacchette magiche per riportare pace nei conti, specie dopo la tempesta finanziaria dello scorso ottobre.

Previsto un aumento consistente anche delle imposte societarie, già peraltro in atto dall’anno in corso, tasse sui profitti straordinari delle imprese, e tante altre misure orientate sull’austerity, ma il Tesoro è affamato di risorse, e non restano altre vie percorribili.

Dopo la Brexit uno dei principali problemi è la mancanza di lavoratori e di beni di consumo, ma del resto si era affidato al referendum del 2016 il compito di fare quasi piazza pulita dei lavoratori stranieri. Hanno pesato nel commercio con l’Ue, che resta peraltro il partner di riferimento, i costi doganali relativi al movimento delle merci da e verso l’Unione, non più esenti, per ovvie ragione, com’erano prima della fuga.

Per quel che riguarda il settore trasporti, l’esecutivo è ricorso all’esercito, affidando ai militari il trasporto di carburanti nelle stazioni di servizio, non esistono camionisti abilitati al trasporto di materie infiammabili.

C’è scarsità di personale insegnante, di medici e addetti sanitari, manca personale anche nel settore della ristorazione. L’inflazione che, come una raffica si è abbattuta ovunque in seguito al conflitto in Ucraina, in Gran Bretagna è salita in modo preoccupante: nel primo trimestre del 2023 ha superato il 10% su base tendenziale. Nonostante i continui interventi della Bank of England, già a partire dal 2021.

L’economia del Regno Unito non si è limitata, dal dopo Brexit, a rallentare come del resto era stato previsto, ma è andata di male in peggio, accompagnata da cambi di guardia continui a Downing Street, nel giro di sei mesi lo scorso anno si sono avvicendati tre premier.

Boris Johnson puntava tutto sulla Global Britain, ma anche Theresa May, che nel 2018, in qualità di premier, esibiva pubblicamente questa sorta di ‘manifesto’ strategico di politica estera, in vista dell’arrivo della Brexit. Si pensava in definitiva di stringere nuove alleanze con altri partner commerciali, soprattutto quelli dell’area Indo-Pacifico, e non solo sul versante economico, ma anche politico e militare. Il cosiddetto ‘Free Trade Agreements’ ha blandamente funzionato all’inizio, poi ci si è resi conto ben presto che l’Ue non era una scarpa così vecchia da essere gettata in un angolo, sul piano degli scambi commerciali.

Dopo due anni di lontananza dal mercato unico, il progetto Global Britain è amaramente naufragato, perché la Brexit non ha mai avuto solide fondamenta, c’è stata molta smania di avventura e sventatezza, certamente poca ponderazione. Intanto il deficit commerciale è aumentato di 43 miliardi di sterline nel 2021 (si attendono i dati del 2022), ma il trend non autorizza ad essere ottimisti, c’è stata peraltro una contrazione nei dati sull’export, causata dalle questioni geopolitiche legate al conflitto in atto in Ucraina.

L’attuale premier Rishi Sunak sembra avere tratto insegnamento dagli errori dei suoi predecessori, ed è più prudente e attento nei rapporti con l’Ue, disposto anche mettere fine alla questione irrisolta Nord irlandese.

Secondo il cosiddetto ‘Northern Ireland Protocol’, l’Irlanda del Nord formalmente non fa più parte del mercato unico Ue, e tuttavia si applicano anche nel post Brexit le norme dell’Unione sulla libera circolazione dei beni e quelle relative all’unione doganale riguardante i 27 Paesi membri Ue. In tal modo si garantisce che non ci siano controlli doganali tra la Repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord.

Non c’è un confine terrestre tra le due parti dell’isola, ma di fatto è stato creato un confine doganale lungo il Mare d’Irlanda, ‘dividendo’ così la Gran Bretagna dall’Irlanda del Nord, anche se questo assetto è stato contestato dagli Unionisti.

Il Protocollo fissa quella parte dell’accordo scaturito in seguito al recesso del Regno Unito dall’Ue, e l’intento, come si è accennato, è quello di evitare una vera e propria frontiera sull’Irlanda, nel punto in cui la Repubblica confina con il territorio del Nord, per giurisdizione appartenente alla Gran Bretagna.

Il Protocollo siglato tra Ue e Gran Bretagna, per offrire una soluzione stabile sugli scambi commerciali,  ha l’obiettivo di tutelare l’economia dell’isola nel suo insieme, ma è nel contempo volto a tutelare l’integrità del mercato unico Ue.

Il problema resta il partito degli Unionisti, che vogliono Belfast ben ancorata alla Gran Bretagna, e fuori dal ‘rischio’ di una riunione con la Repubblica d’irlanda. Sono lo zoccolo duro per la definitiva applicazione del Protocollo, mai realmente accettato, neppure dopo il miglioramento a loro vantaggio con il ‘Windsor Agreement’, intesa raggiunta da Rishi Sunak e Ursula Von der Leyen.

Perfino Biden, quando si è recato in Irlanda in aprile, ha esortato gli unionisti ad accettare con un compromesso il Protocollo, ovviamente non è in discussione l’accordo di Belfast del 1998 (o del Venerdì Santo), ma rappresentano l’ostacolo per una serena convivenza tra Regno Unito e Ue.

Sunak, a fine febbraio scorso, aveva tentato tutte le carte per convincere il leader degli Unionisti Sir Jeffrey Donaldson, del fatto che l’Irlanda del Nord godrà di una posizione privilegiata, unica al mondo, ossia fare parte sia del mercato del Regno Unito dopo Brexit, sia di quello Ue sugli scambi commerciali.

Donaldson sostiene tuttavia l’esigenza di una garanzia sulla chiara appartenenza di Belfast al mercato britannico, e il non allineamento automatico alle norme Ue.