DI VINCENZO G. PALIOTTI
Il 9 ottobre 1963, alle 22.39 dal monte Toc si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia precipitando nel bacino artificiale della diga del Vajont, ad una velocità stimata in 108 Km orari, che conteneva al momento del disastro circa 115 milioni di metri cubi d’acqua.
La caduta della frana provocò un’onda che superò di 250 metri la barriera costituita dalla diga del Vajont. La piena di acqua e fango, un evento che è stato paragonato alla forza di due bombe di Hiroshima, riversandosi oltre la diga che tenne, rase al suolo il comune di Longarone distruggendolo quasi totalmente. L’evento disastroso toccò anche altri comuni limitrofi come Erto e Casso e tante altre piccole frazioni seminando distruzione e morte. Si contarono 1917 vittime, quasi tutte nel comune di Longarone e non tutte furono recuperate, molte restarono sotto la massa di fango e roccia che aveva sommerso le abitazioni. Naturalmente tanti restarono senza abitazioni, tanti persero tutto ciò che avevano.
L’evento fu dovuto a una serie di cause, prima fra queste l’interesse, il profitto ignorando colpevolmente i tanti allarmi pervenuti a loro e di cui erano coscienti, e tanti errori di calcolo e di esecuzione. L’ultimo, inspiegabile in ordine di tempo fu l’innalzamento delle acque del bacino artificiale oltre il livello di sicurezza che era stato stabilito in 700 metri dall’ente gestore, con il “discutibile” scopo di controllare la caduta della frana nell’invaso, in modo che non costituisse più pericolo. Questa tradiva, risultata poi anche sbagliata, precauzione fu adottata quando ormai si era quasi certi della frana, dopo che per anni ingegneri e progettisti della SADE, Società Adriatica di Elettricità, avevano ignorato colpevolmente gli allarmi venuti da alcuni geologi che interpellati avevano sconsigliato l’attuazione del progetto per le caratteristiche e la costituzione del monte Toc che sovrastava la diga. Tra i geologi che avevano previsto il disastro, e sconsigliato di andare avanti con il progetto, c’era addirittura il figlio del progettista e autore dell’opera, ing. Semenza, che fu però smentito dal geologo che consigliava la SADE, Dal Pez.
In tutto questo, una giornalista dell’Unità, Tina Merlin, rese pubbliche le risultanze delle varie perizie prendendo a cuore la questione anche per le pressioni che arrivavano dagli abitanti della zona preoccupatissimi. La Merlin dovette affrontare un processo per “pubblicazione di notizie false e tendenziose”. L’esito del processo non solo fu di assoluzione per non aver commesso il fatto ma la stessa corte trovò le preoccupazioni da lei espresse giustificate e che un reale e concreto pericolo esisteva realmente.
Ciò nonostante progettisti ed ingegneri andarono avanti, nel frattempo la diga dalla SADE passò all’ENEL omettendo di comunicare le perplessità sia degli abitanti della zona, con in testa la Merlin, sia le relazioni dei geologi interpellati al di fuori della SADE che sconsigliavano la messa in atto dell’impresa che invece andò avanti provocando il disastro del 9 ottobre 1963.
In conseguenza di ciò, e solo nel febbraio del 1968 il Giudice Istruttore di Belluno depositò la sentenza di procedimento penale contro ingegneri e progettisti della SADE, alcuni di essi erano deceduti, uno colto da rimorsi si tolse la vita, Ing. Pancini. L’accusa era di disastro colposo, aggravata dalla previsione dell’evento ed il PM chiese quasi per tutti 21 anni di reclusione. In secondo grado furono comminati 6 anni, due di questi condonati, per omicidio colposo, colpevoli cioè di non aver allarmato e sgomberato la popolazione. Altri vennero assolti. La Cassazione confermò le pene inflitte nel secondo grado di giudizio. La prevedibilità della frana però non venne riconosciuta e nel 1997 la Montedison, che aveva acquistata la SADE fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe. La vicenda si concluse nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra ENEL, Montedison e Stato italiano al 33,3% ciascuno.
Tutto questo, accaduto 57 anni fa e che è ancora nel ricordo degli italiani, oltre a farci ricordare sempre tutte le povere vittime e la perdita di tutto ciò che avevano i sopravvissuti, è rimasto da monito per chi per meri motivi economici e/o di sedicente “prestigio nazionale” parlano di grandi opere omettendo di seguire le regole che la natura ci impone, regole che se non rispettate possono provocare disastri simili e ciò che resta alla fine sono solo le solite ipocrite frasi e commemorazioni di rito, cose che durano solo un giorno per poi ricomincia come se niente fosse accaduto.