QUELL’INFERNO DEL NAGORNO-KARABAKH

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

«Il Nagorno-Karabakh è una questione interna dell’Azerbaigian». Sarebbe stata questa la laconica dichiarazione rilasciata dal ministro degli esteri russo Lavrov a spingere gli Armeni, ormai soli come cani randagi, a deporre le armi di fronte alla ennesima tracotante «operazione anti-terrorismo» dell’esercito azero in Nagorno-Karabakh. Una enclave circondata dall’Azerbaigian che conta poco più di 140 mila abitanti, di cui 125 mila di etnia armena.

L’Azerbaigian è ufficialmente una democrazia, con elezioni a suffragio universale diretto ogni cinque anni. Ma una democrazia governata con il pugno di ferro. In molti casi i partiti di opposizione vengono foraggiati dallo stesso governo, ma chi si oppone sul serio non ha un futuro roseo. Le manifestazioni di protesta non sono mai autorizzate, finendo sempre, nel migliore dei casi, con un rilevante numero di pestaggi e arresti, che spesso e volentieri coinvolgono parlamentari liberamente eletti.

Un comportamento che ha assunto dimensioni preoccupanti sin dall’insediamento dell’attuale presidente Ilham Aliyev, uno che definisce i partiti dell’opposizione «pattumiera della storia», che guarda Erdogan come a un fratello maggiore e che non trascorre un giorno senza lanciare anatemi contro la popolazione armena.

Un seminatore di odio che ha trovato adepti in ogni rango dell’esercito. Basti vedere, dopo ogni scontro armato, come i soldati armeni fatti prigionieri vengono ridotti dagli azeri, che al loro cospetto, i comportamenti del pluribacchettato Battaglione Azov sembrano veglie di preghiera delle sorelle di Madre Teresa di Calcutta.

Qui torture e mutilazioni diventano una regola ferrea, applicata con particolare zelo sulle donne, dalle quali i soldati azeri cercano di stare alla larga il più possibile in combattimento. Non solo per la loro proverbiale abilità, ma anche perché secondo un precetto islamico opportunamente distorto, chi viene ucciso in combattimento da una donna non merita il paradiso. E così, quando i soldati azeri, che sono musulmani, si ritrovano tra le mani una soldatessa armena, fanno di tutto per scongiurare quel pericolo, con modalità non facili da immaginare.

Soltanto un anno fa arrivava all’ONU il raccapricciante video di Anush Abetyan, una soldatessa armena di 36 anni, catturata e stuprata da un plotone azero, che ridendo e scherzando le amputò le gambe, le infilò in bocca un dito appena mozzato e inserì due sassi al posto degli occhi, dopo averglieli strappati. Da viva, beninteso. E sarebbero decine le soldatesse armene che hanno fatto più o meno quella fine.

In un simile contesto horror, non ha espresso il minimo disagio Ursula Von Der Leyen, che in luglio è volata a Baku per definire l’Azerbaigian «partner affidabile», visibilmente eccitata dalle esalazioni provenienti dal Mar Caspio. Come dire: continuate pure, basta che facciamo affari insieme. Di casi come Anush Abetyan non ce ne può fregar di meno.

Di fronte alla ennesima scellerata prova di forza di Baku, sono infuriati al Parlamento Europeo, che nel contesto UE conta solo poco più del due di picche. Molti gruppi stanno chiedendo di adottare sanzioni esemplari contro l’Azerbaigian.

Ma il Nagorno-Karabakh non è l’Ucraina.