DI ANTONELLO TOMANELLI
Di strade e piazze dedicate a Sandro Pertini ce ne sono ovunque, anche all’estero. Ma non a Lucca, dove l’attuale giunta di centro-destra ha deciso di bloccare l’iter che avrebbe intitolato una piazza all’ex capo di Stato.
Non c’è mai stato un presidente della Repubblica come lui, almeno in Italia.
Miracolosamente sopravvissuto alla disfatta di Caporetto, incomincia a fare politica nel partito socialista di Savona. Con due lauree in tasca, giurisprudenza e scienze politiche, apre uno studio legale, più volte devastato dalle squadre fasciste.
Per la sua attività antifascista incomincia a collezionare condanne e provvedimenti di confino. Ma riesce sempre a espatriare in Francia, senza mai disdegnare incursioni clandestine in Italia.
Una gli è fatale. Nel 1929 a Pisa viene riconosciuto da un ex collega avvocato e consegnato ad un gruppo di camice nere. Il Tribunale speciale lo condanna a 11 anni. Lui accoglie la sentenza al grido «Viva il Socialismo!».
Il carcere duro mina la sua salute psico-fisica, tanto che la madre presenta alle autorità fasciste una domanda di grazia. Un’iniziativa dalla quale lui si dissocia pubblicamente, riservando all’amata madre parole durissime.
Durante la detenzione fa a botte con una guardia carceraria che non va tanto per il sottile quando discute con gli antifascisti. Gli danno altri dieci mesi. Scontata interamente la lunga pena, lo confinano per altri cinque anni a Ventotene, perché «elemento pericolosissimo per l’ordine pubblico nazionale».
Pertini riacquista la piena libertà nell’agosto 1943. La prima cosa che fa è andare a trovare la madre, quella vecchietta che da anni passa le giornate accovacciata sul muretto che delimita la sua proprietà, e che alla medesima domanda risponde sempre: «sto aspettando Sandro». Dopo quella visita non la rivedrà mai più.
Alterna riunioni clandestine a combattimenti contro i tedeschi. Lo catturano nell’ottobre 1943 a Roma, insieme a Giuseppe Saragat, e lo rinchiudono nel carcere di Regina Coeli. Questa volta lo Stato vuole sbarazzarsi di lui e per sempre. Il Tribunale speciale lo condanna a morte.
Ma dopo pochi mesi, nel gennaio 1944, evade dal carcere in una rocambolesca fuga organizzata dai partigiani della Brigata Matteotti. E nonostante quanto patito, si rimette subito al lavoro.
Negli ambienti della Resistenza romana viene ventilata l’ipotesi di un attacco cruento alla manifestazione indetta per il 23 marzo in Piazza Cavour dal Partito Nazionale Fascista, per celebrare il 25° anniversario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento. Pertini esprime le sue forti perplessità, temendo l’uccisione involontaria di civili innocenti. Tant’è che l’obiettivo si sposta in via Rasella sul reggimento Bozen, falcidiato lo stesso giorno da una bomba che esplode al suo passaggio.
La sua liberazione risulterà provvidenziale, perché in poche ore i tedeschi pianificano la rappresaglia delle Fosse Ardeatine: in qualità di partigiano condannato a morte, sarebbe stato tra i primi ad essere condotto all’interno di quelle grotte.
Trasferitosi a Milano, prepara l’insurrezione e l’occupazione della città. È lui a leggere alla radio il proclama del 25 aprile.
Vuole Mussolini processato da un tribunale italiano. Per questo si oppone fermamente a che venga consegnato agli Alleati. Ma quando vede il suo cadavere esposto a testa in giù in Piazzale Loreto e reso irriconoscibile dall’odio della folla, esclama: «Io il nemico lo combatto da vivo. Oggi l’insurrezione è disonorata». Plaude a Ferruccio Parri quando pochi giorni dopo, commentando Piazzale Loreto, conia il celebre termine di «macelleria messicana».
È spietato nel voler vedere perseguiti i fascisti della RSI. Dedica tre anni a Carlo Basile, l’ex capo della provincia di Genova che aveva organizzato la deportazione di 1400 operai antifascisti nelle fabbriche di armi tedesche. Dopo alterne vicende, Basile viene assolto. Pertini rivolge parole di fuoco ai magistrati.
Nel marzo 1949 è lui a dichiarare il voto contrario del suo partito all’ingresso dell’Italia nella Nato, da lui definita «uno strumento di guerra in funzione anti-sovietica» e organizzazione che «avrebbe influenzato la politica interna italiana».
I fascisti li vede sempre come il fumo negli occhi, anche se riabilitati dalla Repubblica. All’indomani della strage di Piazza Fontana del 1969, in occasione di una cerimonia ufficiale, in qualità di presidente della Camera rifiuta di stringere la mano a Marcello Guida, questore di Milano ma ex direttore del confino di Ventotene, dove era stato internato per cinque anni.
A volte riesce a trovare l’ironia anche nei momenti più drammatici. Quando nella primavera del 1978 Aldo Moro, prigioniero delle BR, spedisce struggenti lettere nella speranza di stimolare una trattativa, da intransigente sostenitore della linea della fermezza si lascia sfuggire la frase «si vede che non ha mai fatto la Resistenza».
L’anno dopo è nel corteo dei 300 mila che salutano Guido Rossa, il sindacalista genovese ucciso dalle BR per aver denunciato un operaio sorpreso a fare volantinaggio. Contro il parere del prefetto di Genova incontra in un gigantesco container i camalli del porto, all’epoca saturo di brigatisti. In un’atmosfera surreale esclama: «Io le Brigate Rosse le ho conosciute tanti anni fa, ma quelle vere che combattevano i nazisti, non questi miserabili che sparano agli operai».
Nel 1981 commuove l’Italia piangendo di fronte all’agonia di Alfredino Rampi, lo sfigatissimo bambino caduto in un pozzo artesiano di Vermicino, località Frascati, che morirà tre giorni dopo, nonostante i tentativi di salvarlo utilizzando persino i saltinbanchi. Pochi mesi dopo si preoccuperà di telefonare personalmente alla madre di Alfredino, comunicandole di aver fatto approvare la legge n. 187 del 1982, che istituiva il ministero della Protezione Civile.
La versione ufficiale della Giunta comunale di Lucca è che al momento vi sono altre priorità. Ma nell’ambiente tutti sanno che ad ostacolare l’intitolazione di una piazza a Sandro Pertini è proprio il suo passato da partigiano. Ignoranti. Uomini così non nascono tutti gli anni.