Tutto Israele con armi americane, ma il mondo arabo soffre e freme

DI PIERO ORTECA

REDAZIONE

 

Da REMOCONTRO –

Il termometro del malessere arabo è la Giordania quando all’Onu denuncia, “Noi abbiamo un piano di pace. Ma non abbiamo alcun partner, per la pace in Israele”. Angoscia e frustrazione in molti Paesi islamici, per la loro impotenza: non riescono a incidere, nella sanguinosa crisi mediorientale. E mentre Israele sembra ormai scatenato, lungo strade che ignorano qualsiasi trattativa, gli Stati Uniti non sono in grado (o non vogliono) arginare le foie belliciste di Netanyahu. Una crisi che se e quando dovesse esplodere costringerebbe molti ‘disattenti’ di oggi a pentirsene amaramente.

Anche i sunniti filo occidentali fremono

Gli alleati sunniti della regione, tra cui Giordania, Egitto, Arabia, Irak, Emirati, Qatar, Bahrein, Oman, per non parlare di quelli più lontani, come il Marocco, fremono. Sono schiacciati tra il ‘dovere diplomatico’, di seguire le “indicazioni” di Washington, e la preoccupazione di dover tenere sotto controllo l’insofferenza di larghi strati della popolazione, sempre più inferocita contro quello che ritiene il “doppio gioco” di Biden. Si potrebbe dire che quelli che noi definiamo regimi pro-occidentali, in effetti lo siano solo al vertice della piramide. Il resto del “tronco” e della base, ha larghi risvolti fondamentalisti, che potrebbero esplodere in qualsiasi momento in devastanti rivolte di piazza. Questa situazione, paradossalmente, ha rafforzato, a livello popolare, l’immagine dell’Iran e dei suoi ‘delegati’ sciiti in tutta la regione.

Popolazioni arabe indignate ed escluse

Gli ayatollah, Hezbollah, gli Houthi e i gruppi del cosiddetto ‘Asse di resistenza’ che operano in Irak e Siria, sono stati gli unici a scendere realmente in battaglia “per solidarietà con i palestinesi di Gaza”. Un’evoluzione insostenibile della crisi per i regimi arabi moderati (sunniti), che si sono visti “espropriare” la bandiera di guerra “contro il nemico sionista”, proprio dagli ayatollah di Teheran. Cioè, da mussulmani etnicamente e culturalmente “non arabi”. La situazione si è progressivamente complicata quando gli iraniani hanno cominciato a fare proseliti anche tra i guerriglieri di estrazione sunnita, come Hamas o la Jihad Islamica. A quel punto, le strategie di infiltrazione “mordi e fuggi” di Teheran hanno contribuito a degradare ulteriormente l’immagine dell’Autorità Nazionale Palestinese, che non sempre è ben vista dagli stessi rifugiati, non solo a Gaza ma anche nei Territori occupati.

Stallo geopolitico dei vertici islamici

Il pericoloso stallo geopolitico che ne è derivato, rischia di ritorcersi prevalentemente sulla lunga schiera dei Paesi islamici, incapaci di fare “blocco” per guadagnare più forza contrattuale diplomatica. Probabilmente, il perseguimento prioritario degli interessi nazionali ha fatto sì che la causa palestinese fosse messa in secondo piano. Questa spiega anche perché alcuni attori importanti, come l’Egitto e l’Arabia Saudita, non abbiano esercitato sulla Casa Bianca tutta la loro forza persuasiva, come avrebbero potuto fare. Nessuno vuole pregiudicare le prospettive economiche e sociali del suo Paese, andando, nei fatti, oltre una retorica verbale che fa parte del gioco. Ma qui torniamo al nostro incipit, cioè alla Giordania.

Rapporto “vertice-base” e rivoluzioni

Nel Piccolo Regno confinante e spesso colpito dalle aggressività israeliane, le tensioni tra “vertice” e “base” sono amplificate, vista la struttura demografica, con un 60% di popolazione palestinese. Lo sa bene Re Abdulla II, che affida il compito di cercare di garantire la sicurezza del regno al Ministro degli Esteri, Ayman Safadi. Subito dopo l’intervento di Netanyahu all’Onu, Safadi ha fatto un discorso per certi versi storico, nel quale ha esposto il deliberato espresso da un Comitato nominato da 57 Paesi arabo-mussulmani. “Posso dirvi – ha dichiarato Safedi – in modo inequivocabile, che tutti noi siamo disposti, proprio ora, a garantire la sicurezza di Israele nel contesto della fine della sua occupazione e della creazione di uno Stato palestinese”. Un’offerta formale, che potrebbe essere un volano da sfruttare immediatamente, per imbastire una trattativa non solo di pace, ma soprattutto di risistemazione geopolitica di tutto il Medio Oriente.

I 57 Stati Arabi per i 50 Stati federati in America

Un appello che, vista la provenienza, cioè un blocco di 57 Stati, dovrebbe se non altro stimolare subito l’interessamento del Dipartimento di Stato Usa. Blinken da sempre, almeno a parole, ha sostenuto il progetto di una suddivisione in due entità statali. Certo, nessuno coltiva facili illusioni.

“Safedi ha aggiunto: “Chiedi a qualsiasi funzionario israeliano qual è il suo piano per la pace. Non otterrai nulla, perché pensano solo al primo passo. Ti diranno che andranno a distruggere Gaza, a infiammare la Cisgiordania, a distruggere il Libano, ma dopo non avranno alcun piano. Noi, invece, abbiamo un piano. Ma non abbiamo alcun partner, per la pace in Israele”.”

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Articolo di Piero Orteca dalla redazione di

4 Ottobre 2024