DI MARIO PIAZZA
Se esistesse un “master” in manifestazioni lo avrei ottenuto col massimo dei voti. Negli anni tra il 1967 e il 1973, pausa naja a parte, andare in piazza (nomen omen) era un lavoro a tempo pieno. Che fossero autorizzate o vietate, pacifiche o violente, organizzate o spontanee io non me ne perdevo una. Sfilavo orgogliosamente a braccetto dei compagni, e che fossero tesserati del PCI o anarchici insurrezionalisti, studenti o operai, non mi faceva nessuna differenza. E non mi bastava sfilare su e giù per Milano, quando le manifestazioni partivano dalla Statale o dalla Cattolica dove ero di casa facevo sempre parte dei Katanga, quelli che eufemisticamente chiamavamo “servizio d’ordine”. Ne ho prese e ne ho date, e non sempre per delle buone ragioni.
Forte della mia esperienza una cosa mi sento di dire con assoluta certezza: le manifestazioni non diventano mai violente per la volontà dei partecipanti. A dare il via ai tafferugli sono sempre, ma proprio sempre sempre, i provocatori e gli infiltrati. Più la manifestazione era giusta e sentita e più quei vermi, neofascisti, poliziotti o agenti dei servizi camuffati da manifestanti avevano il compito di farla degenerare. Certo bastava poco per scatenare la rabbia dei manifestanti ma quel primo sasso in una vetrina, quella carica di alleggerimento, quel cordone di celerini che ci sbarrava il passo, quell’arresto ingiustificato erano sempre parte di un disegno preciso che aveva lo scopo di mettere fuori legge non solo i partecipanti ma insieme a loro le ragioni stesse della protesta.
Questo è successo ieri a Roma, anche se non c’ero sono pronto a metterci la mano sul fuoco.
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Mario Piazza