Quel 7 ottobre crudele, un anno di ferocia e mondo in bilico

DI PIERO ORTECA

REDAZIONE

 

«Pronta la rappresaglia di Israele. L’Iran revoca le restrizioni ai voli. Inferno su Beirut e Gaza». Insegui le agenzie stampa sperando che la guerra non sia cresciuta di qualche altro fronte, che non sia ancora la guerra totale. Un anno fa la strage compiuta da Hamas in Israele, ora la questione palestinese a livelli drammatici, e l’attesa dell’attacco di Gerusalemme all’Iran, dopo il massacro-vendetta di Gaza e Libano ancora in corso. Tutti in attesa dell’inevitabile che nessuno al mondo sembra sia in grado di impedire, sperando che l’America complice possa almeno frenare la portata delle ritorsioni  israeliane. La cronaca che insegue la follia politica di alcuni potenti, e la paura del mondo di fronte  a quei troppi morti assurdi che ci impediscono di poterli piangere assieme. Fine di un tentativo di cronaca senza notizia, il compito più difficile di una analisi sulla precaria situazione politica ad oggi, a Piero Orteca. Rem

An Israeli tank maneuvers in northern Israel near the Israel-Lebanon border

Ha vinto solo l’odio che produce vendetta

Un anno. Un anno esatto dai massacri compiuti da Hamas contro le comunità israeliane vicine alla Striscia di Gaza. Con l’aggiunta del disumano sequestro di oltre 200 innocenti. Ma anche un anno di indicibili sofferenze, inflitte dallo Stato ebraico a milioni di palestinesi, non per “autodifesa”, ma piuttosto per rappresaglia, trasformatasi in una sanguinosa e biblica vendetta. Quasi impietoso fare la contabilità delle vittime: i morti non sono numeri. Vanno solo rispettati. Tutti. Nessuna guerra lascia vincitori “per sempre”, perché chi perde si vorrà rifare. E chi pensa di avere vinto, dovrà sempre guardarsi le spalle, da qui all’eternità. No, non può funzionare così.

Israele ebraica e la questione palestinese

Ecco, dall’attenta lettura della stampa locale, la nostra impressione è che il 7 ottobre sia diventato il punto di svolta dell’approccio israeliano alla crisi con i palestinesi. Prima di allora esisteva ancora, benché in modo altalenante, un’anima “trattativista”. Che potremmo sinteticamente definire “terra in cambio di pace”. O, per essere più chiari, “autonomia in cambio di sicurezza”. Cioè, concessioni (sia pure limitate) ai palestinesi, a patto di rinunciare, definitivamente, alla lotta armata. Lo zenit di questa dottrina era stato raggiunto con gli accordi di Oslo. Ma, evidentemente, alla base della crisi c’erano dei problemi strutturalmente irrisolvibili. In ogni caso, il premier che firmò quegli accordi (Rabin) venne ucciso dagli stessi estremisti israeliani. Questo per far comprendere come, al di là delle apparenze, i due popoli non abbiano una omogeneità di vedute sui grandi temi al loro interno.

Le fratture interne allo Sato ebraico

E oggi, forse più che in altre epoche, questa influenza degli affari politici domestici pesa maggiormente sulle scelte di politica estera. E, a cascata, sulle strategie militari. Si parlava da anni di una “cointeressenza” tra Hamas e la destra israeliana, nel senso che entrambi rifiutavano una soluzione a due Stati. Netanyahu ha sempre preferito avere un “nemico” da combattere, piuttosto che un avversario con cui scendere a patti (come l’ANP). È risaputo che il Likud al potere non ha mai fatto niente per bloccare i finanziamenti che arrivavano ad Hamas. Sollevando numerosi interrogativi. Perplessità che naturalmente sono aumentate, dopo l’incredibile attacco di Hamas del 7 ottobre.

I dubbi irrisolti sul 7 ottobre

Ci si chiede, come sia stato possibile che un servizio di intelligence come quello israeliano, ritenuto il migliore del mondo, non sia stato in grado di avere informazioni preventive. La ferita è ancora aperta, anche se il governo di Netanyahu si rifiuta di istituire una Commissione d’inchiesta, per approfondire le responsabilità. E qui entriamo in un terreno minato. Tutti gli specialisti di Medio Oriente credono di sapere perché il premier israeliano sia animato da foie belliciste. Non è solo un problema di “sicurezza nazionale”, ma parafrasando la situazione potremmo dire che siamo in tema di “sicurezza personale”. Netanyahu deve sostenere dei processi per corruzione, che non promettono niente di buono per lui e che potrebbero decretare la fine della sua carriera politica.

La guerra strumento politico personale

Fino a quando il Paese è in guerra, il suo governo (con una maggioranza striminzita) può andare avanti, senza che nessuno ne chieda le dimissioni. E da Gaza al Libano, dalla Siria all’Iran, Israele si alimenta di guerre. Anche perché gli americani non sembrano avere alcun potere contrattuale su Netanyahu. Continuano a riempirlo di miliardi di dollari e di armi, ma dicono di non essere in condizione di suggerirgli una pausa nei combattimenti. Insomma, Biden paga e Netanyahu fa quello che vuole. E allora, proprio oggi, 7 ottobre, lasciamo a Sefy Hendler, del prestigioso quotidiano di Tel Aviv Haaretz, la riflessione su questa tragica data.

Riflessione israeliana

“Da quando la coalizione Netanyahu-Ben-Gvir-Smotrich è salita al potere e ha scatenato il colpo di Stato giudiziario, insiste nel dipingere Israele come una potenza fondamentalista arretrata, in Medio Oriente. Dopo il 7 ottobre, la situazione è stata aggravata dal rifiuto di Netanyahu di elaborare qualsiasi tipo di via d’uscita diplomatica dalla fossa in cui ha condotto Israele a Gaza, di promuovere attivamente un accordo di ostaggi o di aiutare a trovare una soluzione diplomatica allo scontro in Libano. Esiste solo la ‘vittoria totale’ che è diventata un crollo delle pubbliche relazioni e della diplomazia in rotta verso una guerra senza fine. E la preservazione del leader a qualsiasi prezzo”.