DI RAFFAELE VESCERA
Al di là delle vicissitudini esistenziali di Parthenope, donna napoletana protagonista del nuovo film del pur napoletano Paolo Sorrentino, Parthenope il cui nome richiama la leggendaria sirena greca fondatrice di Napoli, suicidatasi per non essere riuscita con il suo canto a incantare Odisseo, la Napoli triste, cupa, perversa, a tratti noiosa, lenta, ripetitiva e oscena descritta da Sorrentino, seppur in allegoria, non convince e non incanta. Se Parthenope vuole rappresentare la Napoli che è, la rappresenta in un modo molto parziale che prescinde da una visione sociale del popolo partenopeo, visto solo nelle sue esagerate mancanze, trascurando la grande umanità dei napoletani e la loro grande ricchezza culturale. Una città di ellenica formazione dove le tragedie, che pur vi sono, sono scacciate dall’euforia, facendosi commedie.
Una città di grande ricchezza e di molteplici aspetti, mai riconducibili a un banale pregiudizio.
In quanto ai mali odierni di Napoli, povertà, disoccupazione, camorra, come nascondere che sono la terribile conseguenza del trattamento coloniale che Napoli e l’intero Sud ricevono dallo stato italiano da quel lontano 1861?
Non da critico cinematografico giudico questo film “pseudofilosofico” ma da spettatore che Napoli l’ha vista e vissuta con altri sentimenti così descritti in un mio romanzo “Il giudice e Mussolini”:
“Le due amiche condividevano la bella vita napoletana, dalle infinite giornate di sole a passeggio sul luminoso lungomare alle serate trascorse tra feste private negli antichi palazzi nobiliari e teatri zeppi di bella gente, tra matinée all’elegante Caffè Gambrinus e pomeridiane incursioni nelle strade affollate di persone d’ogni ceto, benestanti sdegnosi e socievoli aristocratici, artigiani saputi e ingenui guaglioni, umili bisognosi e malandrini volpini, facce storte di guappi e bei volti amichevoli, goliardici studenti e pulcinella di strada, sfacciati scugnizzi e innocenti “criature”, signorine dagli occhi ardenti e pudiche educande di scuole religiose raccontate da Matilde Serao, passioni eterne ed effimeri amori bugiardi a buon prezzo, musicisti sapienti e saltimbanchi improvvisati, commedianti irresistibili e queruli postulanti, venditori di prodotti pregiati e simpatici impostori. Quella varia umanità che abbraccia chiunque s’avventuri per le strade della città più ricca di spirito e bellezza del pianeta, una metropoli in cui il sentirsi forestiero è una condizione sconosciuta, nessuno è estraneo dove bastano uno sguardo e due buone parole per finire davanti a un caffè a raccontarsi i fatti propri. La città dove la banalità del dire è fuorilegge, in cui un’espressione che ricordi il già detto annoia. Se tra le nordiche nebbie il riferimento ripetitivo, l’ordinata monotonia, il luogo comune, l’univocità del senso delle parole sono riferimenti rassicuranti per non perdersi nel labirinto dei significati, nella vulcanica città di Partenope la parola non è freddo strumento di burocratica comunicazione, il dire deve essere originale, rimandare ad altri sensi, un eloquio fantasioso per suscitare meraviglia, gioia, timore, emozioni. Se nella madrepatria greca gli dei che governavano passioni e destini umani, eros e morte, armonia ed eccesso, logos e istinto, tragedia e commedia, risiedevano sull’Olimpo, lì erano di casa sul vulcano, dominus del golfo più bello del mondo. Napoli, capitale del buon vivere, città della gioia antidoto a quella della noia, immensa agorà, mercato di parole e di merci in bella mostra, aveva catturato nella sua inestricabile rete di piaceri il severo giovane di provincia, offrendogli godimenti da lui vissuti con sensi di colpa.”
È a questa Napoli, ironica seppur dolente, che sono legato da infinito affetto e riconoscenza per quanto mi ha dato, allargando i miei orizzonti “antropologici”, termine pur abusato nel film di Sorrentino con la sua ricorrente domanda retorica sul “che cos’è l’antropologia” accompagnata dalla risposta “l’antropologia è vedere”. Io il film l’ho visto e di antropologico vi ho trovato solo le fisime e i fantasmi di Sorrentino.
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Raffaele Vescera