DI VIRGINIA MURRU
Le parole non sono chiavi con serratura stretta.
Non è poi così inconsueto leggere nei libri di grammatica, antologie o testi di Filologia, l’avversione dei linguisti per l’uso dei ‘paroloni’. E’ indubbio che un testo infarcito solo di retorica, con termini palesemente ostentati, non costituisca la migliore credenziale per onorare un idioma. La retorica fine a se stessa poteva svolgere la sua funzione culturale nelle civiltà classiche, come quella Greca e Latina.
La Cultura Ellenica in primis, appunto, che nel suo evolvere dava grande importanza all’eloquenza, in grado di scuotere la sensibilità di coloro che ascoltano o leggono. L’oratoria nella Cultura greca in particolare, era un rimando alla retorica, ovvero la scienza del linguaggio.
La società del nostro tempo si avvale di strumenti espressivi diretti ai molteplici orizzonti della cultura, perciò l’uso dell’idioma diventa interattivo e specifico per ogni settore di riferimento nella vita sociale. Il problema, secondo ‘gli specialisti’ della lingua, e ancora più i puristi, è l’abuso di una certa terminologia esuberante e spesso impropria, la sovrabbondanza di questi paroloni, sia in letteratura che nel giornalismo.
La critica dei linguisti ha sempre una sua ragion d’essere: essi vigilano sugli eccessi e il rispetto delle regole fondamentali che dovrebbero costituire ‘la deontologia professionale’ di chi della scrittura ne ha fatto un mestiere, un’Arte. Forse, come sempre, la ragione si discosta un po’ dalla frontiera dei giudizi che riguardano le opposte tendenze. Personalmente non approvo questa guerra dichiarata ai cosiddetti paroloni, i quali, altro non sono che innocenti vocaboli del nostro lessico.
Nessuno in particolare possiede il conio delle parole, ognuno quando scrive, attinge da un patrimonio linguistico comune e sta alla sua competenza professionale usarle con buon senso e in modo appropriato.
E’ certamente da apprezzare chi privilegia la scrittura scorrevole, sobria, fluida ed elegante. La semplicità, peraltro, porta il pensiero a trascendere, conduce verso i nostri istinti primordiali, all’era in cui la sfera cognitiva non era molto dotata di fermenti intellettivi né sollecitata da stimoli culturali ‘collaudati’, facenti parte della memoria dell’individuo.
Era un mondo immerso nei semplici rituali della natura, un’orchestra di suoni e ‘inputs’ sensoriali, strettamente in armonia e corrispondenti ad essa. Da questi suoni semplici e vibranti è nata la parola, mezzo espressivo che ha poi riflesso la sua essenza nei primi rudimenti di scrittura attraverso i segni e infine l’alfabeto.
Ogni epoca, ogni era, ha attinto da questi fondamentali mezzi di comunicazione, orali e scritti, per esprimere la propria identità culturale, e solo grazie a tali conquiste si è potuto ampliare il concetto di Cultura in Civiltà, attraverso similitudini di lingua, usi e costumi di un popolo, o di più popoli quando essi avevano linee di analogia che li identificava per ragioni etniche o linguistiche, a caratteristiche comuni. L’omologazione culturale parte da queste prospettive nella storia dei popoli.
Questa digressione non è inopportuna allorché si discorre intorno ad argomenti che rientrano nella dinamica evolutiva dell’idioma, le sue severe regole nell’uso quotidiano, soprattutto per quel che attiene alla scrittura. Si condanna esplicitamente l’uso di termini che appesantirebbero un testo, ma l’osservazione non sembra sia rivolta alle pure conseguenze di questo modo di scrivere; parrebbe di ravvisare una vera e propria ostilità per queste innocue parole, che diventano colpevoli solo se usate in modo improprio e non già perché rendono ‘colorito’ il testo, complesso e pesante.
Prediligere la semplicità d’accordo, perché ciò che si scrive non è retaggio per élites, come accadeva fino a un secolo fa; ora il progresso non è solo tecnologico o scientifico, ma riguarda anche il fenomeno culturale in genere.
Ci si rivolge, tramite i mezzi di comunicazione, alla gente, anche alle classi meno abbienti, che certo hanno diritto di capire e valutare i messaggi che vengono loro rivolti, ma non ci si può arroccare sulla staticità. Una lingua, e lo dimostra il notevole numero di neologismi che ogni generazione ha espresso e aggiunto al proprio lessico, è frutto di variabili e cambiamenti che vengono da tutti i settori della società, siano essi scientifici, tecnologici, politici, sociali, ecc.
Certo la politica con la sua rudezza e ostilità non rispetta il rigore che hanno sempre esatto i linguisti, ma in definitiva è sempre stato un popolo a esprimere e affermare le caratteristiche di un idioma, i letterati di ogni tempo hanno solo divulgato queste tendenze, come fecero gli autori Greci quando i vari dialetti si unirono in epoca Ellenistica nel solo Koiné.
Ma anche in casa nostra furono gli scrittori e i poeti Umanisti a prendere atto che ormai il Latino perdeva le sue connotazioni linguistiche originarie; la gente parlava e si esprimeva in modo diverso, e questo non si poteva ignorare né sottovalutare.
I popoli scrivono la loro storia, quasi sempre ne sono protagonisti. Così per la Civiltà e la lingua, sempre frutto di dinamismo, ossia rapporto società-tempo.
I virtuosismi letterari nella scrittura, attraverso l’impiego di parole ‘difficili’, fanno parte di una visione più ampia nelle dinamiche della cultura, dell’eclettismo nell’arte del narrare, qualunque sia l’orientamento linguistico o lo stile. Parole non comuni, ma ben presenti nell’idioma. E’pertanto legittimo e naturale l’impiego di un lessico ‘forbito’, con un occhio di riguardo all’estetica della scrittura.
Certo si può raccontare semplicemente, sono tanti i criteri di valutazione nella lettura di un testo, ma l’estro creativo che sa esprimere una prosa elegante, ben curata, ha certamente le credenziali dell’Arte autentica, in questo ambito della letteratura e della cultura in generale.
Diceva Gesualdo Bufalino:
“Il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l’oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci resta per contrastare l’ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti.”
Bufalino, U. Eco e tanti altri scrittori italiani che hanno amato e amano un genere di scrittura in cui erudizione ed eleganza guidano la meraviglia del narrare, si compiacciono d’essere in qualche modo anfitrioni nell’arte della scrittura, ma lo esprimono con garbo, sollecitando la curiosità di chi legge, istruendolo, anche, senza che questo risulti onere nella lettura.
Abbiamo nel passato dei grandi maestri, scrittori come Flaubert, Gautier, Mann, Muriac e tanti altri, che, tanto per dirla con un luogo comune, hanno impartito lezioni di stile per generazioni e sono ancora dei grandi referenti per coloro che amano l’autentica arte del narrare.
Si può significativamente finire con una citazione del grande e rimpianto U.Eco (maestro dell’erudizione e dei virtuosismi linguistici):
«Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi. La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.»
Assolviamoli, dunque i cosiddetti ‘paroloni’, e usiamoli un po’ di più, non possono essere relegati in un angolo oscuro del nostro idioma, dato che a pieno diritto ne fanno parte. Un uso sapiente degli strumenti lessicali, non rende solo più pregevole la stesura di un’opera, la distingue, perché ognuno è in grado di raccontare storie, la differenza consiste nel modo in cui si racconta, ossia il confine tra ordinario ed eccezionale, tra una ‘cosa’ comune ed un’opera d’Arte.