DI PAOLO DI MIZIO
L’America non aveva mai visto niente di simile nella sua storia: una folla di migliaia di persone, una parte delle quali armata, che assalta il Campidoglio, ossia il complesso che ospita il Senato e la Camera, il luogo più simbolico della democrazia statunitense. Questo colpo di coda di Trump e del trumpismo è stata una cosa degradante che ha posto l’America sullo stesso piano di una qualsiasi repubblica turkmena, afghana o mongola, senza offesa per quei popoli.
E a nulla vale il tentativo di evocare un paragone con le proteste ai tempi della guerra del Vietnam, quando davanti a Capitol Hill si svolgevano manifestazioni pacifiche, marce, sit-in, animate da comizi e canti di reduci che bruciavano le medaglie al valore, di artisti, pacifisti, cantanti come Joan Baez, attori e attrici come Jane Fonda.
Nulla a che vedere con l’assalto del 6 gennaio, la folla che sfonda i cordoni di polizia, gli agenti costretti a ingaggiare lotte corpo a corpo; gli uomini dell’Fbi che con la pistola in pugno tengono a bada la folla minacciosa che tenta di sfondare le porte interne; le aule di camera e senato occupate dall’orda; senatori e deputati stesi a terra nei loro uffici con le maschere anti-gas per difendersi dalle esalazione dei gas sganciati dalla polizia, mentre si attendono i rinforzi della Guardia Nazionale dal vicino Maryland; e infine un bilancio di quattro morti, tredici feriti e oltre cinquanta arresti.
Quanto è avvenuto è stato nulla di meno di un tentativo di golpe, qualcosa che gli Usa hanno spesso “esportato” in America latina ma che non credevano di dover un giorno sperimentare a casa propria. Un golpe “soft”, alla venezuelana lo definirei, ricordando quel Juan Guaidò che con l’appoggio della Cia si auto proclamò presidente a Caracas, ma senza successo. Non è un caso che nel mondo solo il brasiliano Bolsonaro difenda Trump, mentre l’altro trumpista rampante, il britannico Johnson, abbia preso le distanze dall’amico d’oltreoceano.
Questa volta il “golpista soft” si chiama Donald Trump, il presidente che nei giorni precedenti aveva incitato la folla con una serie di tweet e video, chiedendo ai suoi sostenitori di “andare a Washington, in Campidoglio” per fermare “la rapina elettorale”, ossia la certificazione ufficiale del Congresso che avrebbe definitivamente incoronato Biden presidente, come prevede la Costituzione e come avverrà a mezzogiorno in punto del 20 gennaio. In breve, il tentativo spericolato di un presidente uscente, balordo, battuto nelle urne, di impedire l’insediamento del legittimo vincitore delle elezioni. Una storia, appunto, dal sapore sudamericano e golpista. Tanto che, di fronte ai suoi messaggi eversivi, Twitter, Facebook e Instagram sono arrivati alla decisione di bloccare gli account del presidente fino al 20 gennaio.
Anche l’appello con cui Trump ha invitato la folla a tornare a casa, è stato tardivo (ore dopo l’inizio dell’assalto), ambiguo e infarcito come al solito di falsità: “Le elezioni sono state rubate, abbiamo vinto a valanga, lo sappiamo benissimo e lo sanno i nostri avversari” ha detto Trump.
Tutto questo non può finire nel dimenticatoio. È il frutto di un populismo eversivo, spregiudicato, senza freni: è l’acqua sporca in cui sguazzano i ratti. Rimane solo da augurarsi che Trump sia perseguito dalla Giustizia, perché è un golpista che ha attentato e attenterà ancora, se ne avrà la possibilità, alle istituzioni democratiche. Sarebbe una giusta nemesi se si concretizzasse contro di lui il suo vecchio slogan: “Lock him up”, ossia “schiaffatelo in galera”. Solo un arresto potrebbe fermare questo missile atomico che minaccia di bombardare il suo stesso Paese.