DI COSTANZA OGNIBENI ED ELISA BENZONI
Costanza, 39 anni, ha sempre scritto e lavorato nella comunicazione e nella pubblicità. Elisa 49 anni, due figli, ha sempre scritto e lavorato nella comunicazione e negli uffici stampa.
Partiamo da qui. E dal difficile momento che stiamo vivendo, che ha chiamato le donne, e più di tutto le madri, a fare i conti con una uguaglianza che non c’è. Siamo in piena pandemia, costretti a casa da un virus che pare inarrestabile a giostrarci tra smartworking e DAD. I ragazzi in questo ultimo anno sono stati prevalentemente a casa e i genitori sono stati costretti a rinunciare a parte del loro lavoro per seguirli. A conti fatti, ancora una volta, sono le donne a dover mettere da parte la loro realtà professionale per seguire i figli, poiché, volenti o nolenti, son sempre loro a “portare meno soldi a casa”. Una decisione logica che parte da un vizio di fondo che spinge a una riflessione sullo status quo: perché nel secondo decennio del XXI secolo ci troviamo ancora in questa situazione? Perché un trattamento salariale iniquo sembra ancora l’unica via percorribile? Secondo una classifica dell’Istat sono 470mila le donne in più che hanno perso il lavoro nel 2020.
In un’ottica postfemminista, Costanza pensa manchi una consapevolezza culturale e che su quella bisogna puntare. Elisa spera che le regole possano essere il volano di un’emancipazione e di un cambiamento culturale che tarda ad arrivare.
Perché se molto si è fatto – le donne nelle pubblicità delle auto non sono più sul cofano in atteggiamento provocante ma, addirittura (!), alla guida – molto c’è ancora da fare.
E. Costanza, esiste il negazionista anche su temi come la disparità sessuale o il gap salariale. C’è gente che ritiene che la questione non esista, che le indagini europee siano il frutto della lobby femminista e che il femminicidio sia quasi esclusivamente solo il frutto dell’isteria della stampa italiana e internazionale (“perché se poi è l’uomo ad essere ucciso da una donna, nessuno ne parla”). Roba da psichiatra. E dobbiamo partire da qui perché non siamo d’accordo neanche sulle basi…
C. Stando ai dati europei, le donne a parità di ruolo guadagnano il 25% di meno. Partirei dal negazionista che vede la disparità come un tema arcaico: “Avete conquistato il diritto al voto, al lavoro, ormai a casa ci state meno di noi…ma che altro volete?”. Il problema è innanzitutto culturale e se non si risolve questa mentalità, ho paura che non andremo molto lontano.
Per affrontare il tema da un punto di vista così profondo, occorre andare a vedere prima la punta dell’iceberg, ovvero i numeri. Leggevo su Repubblica, che dal 2016 al 2018 la differenza retributiva è sì scesa del 2,7%, ma resta comunque ampio il gap fra stipendi maschili e femminili: circa il 10% in più è ancora a favore degli uomini. Si tratta di numeri emersi dal Gender Gap Report del 2019, realizzato dal laboratorio JobPricing con Spring Professional. La spiegazione che gli esperti di retribuzioni danno al fenomeno è che l’accesso alle posizioni apicali per le donne è ancora molto limitato, seppur in leggero miglioramento rispetto al passato. Ma anche a parità di ruolo, come accennavi tu, il gap rimane: da un’analisi statistica condotta sempre da JobPricing, nel 77% dei casi gli uomini hanno salari più alti rispetto alle donne, e questa situazione è estesa a tutti i ruoli professionali. Tra l’altro, sembrerebbe anche che le donne italiane studino di più rispetto ai colleghi – nel 2018 il 54% dei laureati erano donne – ma privilegino studi che portano a lavori con minori prospettive di guadagno.
Alessandro Fiorelli, CEO di JobPricing conferma quanto dicevo all’inizio, che il problema è innanzitutto culturale, e questo rende poco funzionali anche politiche come le Quote Rosa, che aiutano certamente, ma non risolvono il problema alla radice.
E. Non risolvono ma aiutano. Tutti siamo contrari nella teoria agli interventi ex abrupto ma se la situazione continua a essere questa c’è poco da fare. Anche io vorrei che il “mercato” spingesse naturalmente verso il sol dell’avvenire ma se non è così… Per anni abbiamo dibattuto sulla scarsa propensione alla carriera politica delle donne, poi abbiamo deciso che forse era il caso di fare qualcosa, di indirizzare il cambiamento.
Anche la battaglia sulle retribuzioni dovrebbe seguire questa scia per diversi motivi. Primo, basta avere un minimo di raziocinio per capire che a parità di ruolo, un uomo deve essere retribuito come una donna. Il mercato vuole altro? E noi interveniamo con il primato della politica. Secondo, il gap salariale è misurabile. Obblighiamo i privati a pubblicare un report annuale specifico per far vedere sia il gap sia la presenza femminile a livello apicale. Facciamo magari in modo che per ottenere la SA8000 (la certificazione di giustizia welfare in soldoni) tu debba rendere pubblico il tuo livello di disparità. E diamoci sul campo obbiettivi misurabili. Terzo, la battaglia sui salari è molto più facile di quella sui costumi e sui pregiudizi.
C. Io però ho paura che se non si fa una battaglia su costumi e pregiudizi, quella sui salari rimarrà sempre una scelta miope. Tuttavia, visto che il cambiamento culturale è un fenomeno di lungo corso, nel frattempo si deve certamente intervenire su salari e possibilità di carriera. Interventi, però, che non devono essere spacciati per soluzione: finché non cambia la concezione delle donne nella sfera sociale – che poi è una derivazione di quella privata – non dobbiamo cantare vittoria, nemmeno per un minuto! Altrimenti rischiamo di cadere in quei falsi movimenti di cui la storia della politica è costellata. Nel momento in cui ci occuperemo di equiparare stipendi e carriere nel mondo lavorativo, dovremo quindi fare attenzione a che, parallelamente, ci sia qualcuno che continui a portare avanti una battaglia molto più profonda, radicale. Dunque più efficace. Non dovremo pensare nemmeno per un minuto che tolto il sintomo avremo estirpato anche la malattia.
E. Certo, ma da qualche parte dobbiamo pure partire. Anche perché, Costanza, sono anni che ne parliamo e ci troviamo ancora messi così. E allora cambiamo paradigma, dobbiamo essere prosaiche: quote rosa, obbligo di percentuali di presenza nei primi livelli delle aziende, obbligo alla pubblicazione delle aziende della disparità retributiva, detassazione lavoro femminile magari con la diminuzione del cuneo, in modo da abbracciare tutti i livelli. E poi i servizi certo, ma non mi parlate di nidi. Primo perché sono anni che la consideriamo una priorità e nulla è stato fatto; secondo, perché non è che dopo i tre anni si ha il supporto necessario. Se raggiungiamo questi minimi obiettivi, poi la battaglia culturale se non è vinta almeno è avviata.
C. Occorrerà certamente riformulare certe leggi, ma continuo a dire che il discorso andrebbe abbracciato in un’ottica più completa semplicemente perché quello che proponiamo (detassazione, servizi, parità di salario), all’interno in un sistema neo-liberista, si colloca male! Può, deve rientrarci, ma rimarrà sempre un “favore” che ci viene fatto obtorto collo.
Volendo fare l’avvocato del diavolo, mi metto nei panni di un imprenditore: in un mondo così competitivo, dove è il mercato a farla da padrone, dove vanno portati a casa “i numeri” e sei vincente se fai profitto, non rischia di diventare controproducente tutelare tutte e tutti? Ecco perché insisto sul dire che il discorso andrebbe fatto in un’ottica più ampia. La nostra lecitissima richiesta non deve presentarsi come capriccio o rivendicazione; deve, piuttosto, presentarsi per quello che è: la pretesa che si faccia qualcosa di finalizzato a un benessere di lungo periodo.
Le aziende della Silicon Valley lavorano seguendo protocolli che tutelano la salute psicofisica dei lavoratori: sono regolamenti costruiti a misura d’uomo, non certo per un’umanità di fondo, quanto, piuttosto, perché è stato provato che superate tot ore e tot soglia di stress, i rendimenti decrescono fino ad azzerare la produttività del lavoratore, il quale a quel punto diventa un mero costo.
E. Visto che ne hai parlato colgo la palla al balzo. Se tu elimini gli straordinari elimini l’unica cosa che un uomo può fornire in quantità maggiore di una donna. Se inserisci le 35 ore (e temo che su questo non si sia ragionato abbastanza) azzeri l’unico reale e tangibile vantaggio competitivo che l’uomo ha sulla donna.
C. Si ma anche abbassando la settimana a 35 ore l’uomo potrà dimostrare il suo primato accumulando straordinari. Ecco perché continuo a dire che senza battaglia culturale i provvedimenti sono utili ma nel lungo periodo rischiano di diventare sterili: le aziende, e anche i lavoratori, devono capire che quella sfera personale deve essere universalmente riconosciuta come fondamentale quanto quella lavorativa: della riduzione dell’orario di lavoro gioverebbero anche gli uomini, in una sorta di riequilibrio forzato tra vita lavorativa e vita personale. Una spinta anche questa che porterebbe anche al riequilibrio delle mansioni domestiche, di solito in carico unicamente (o quasi) della donna.
Quindi sì alle 35 ore, ma perché ne va del benessere psicofisico del lavoratore, e quindi della sua produttività. Sì, anche a qualsiasi legge, azione, provvedimento volto a equiparare la tipologia di trattamento. Ma tutte queste azioni devono essere eseguite all’interno di un contesto che mostri le donne, così come tutti i lavoratori, come una risorsa e le donne stesse devono rendersi conto di esserlo – purtroppo molte volte siamo proprio noi a non renderci conto dei nostri mezzi e di quanto questa maggiore recettività ed empatia rispetto alla controparte possa essere messa al servizio dell’impresa. E perché si crei questo contesto occorre convogliare risorse da tutte le parti: dalla politica, alla cultura, dall’informazione alla scuola. E, in ultimo, ma non per importanza, anche dalle nostre mura abitative: con i figli, facendo loro vedere che mamma e papà sono uguali, anche se diversi, o ma anche con il proprio compagno.
(Foto di Moose da Pexels)