DI GORDIANO LUPI
Mi hanno portato in questo posto lontano dal mio solito mondo in una notte d’inverno. Il treno sferragliava sui binari per una direzione ignota e io giocavo con le biglie insieme a un amico, nascosto in un angolo del vagone merci. Intorno a me tante persone, unite da identico destino, dirette in un campo recintato da filo spinato, palizzate di legno e cemento. Il lavoro vi renderà liberi, mi sembrava di aver letto sopra un grande cartello, mentre uomini in divisa lanciavano sgradevoli grida al nostro indirizzo. Mia madre non so dove sia, dopo la cattura non l’ho più vista, pare che l’abbiano portata in un settore del campo dove tengono soltanto le donne. Mio padre mi ha lanciato un bacio mentre soldati in divisa dai sorrisi tristi lo conducevano in una capanna cadente, lontana dai miei occhi. Adesso che sono solo, mi fanno compagnia le pagine sporche e ingiallite di questo quaderno dove annoto pensieri e ricordi, stando attento a non farmi vedere dalle guardie, la sera prima di andare a dormire. Non potrei farlo, se mi scoprono rischio di essere picchiato, magari mi tolgono pure la modesta razione quotidiana di minestrone insipido dove galleggia mezza patata bollita. Il mio diario resta il solo sfogo a giorni terribili, di follia, dove rimpiangere il passato diventa abitudine quotidiana. Ricordo le strade di Varsavia e un modesto quartiere, dove giocavo con gli amici del ghetto, ci rincorrevamo e restavamo nascosti tra gli alberi, inconsapevoli che un giorno i nostri giochi sarebbero diventati triste realtà. Rammento le serate al caldo davanti a una tazza di tè o di cioccolata calda, la quiete della nostra casa, mio padre e mia madre che parlano, magari discutono di cose futili, litigi quotidiani, piccoli motivi di dolore che hanno lasciato il posto a un orrore immenso. Penso che il passato non può tornare, le cose belle sono rimaste indietro e non faranno più parte del futuro. Il presente immodificabile scorre sopra una landa di terra umida e triste, tra freddi campi da lavoro, popolati da prigionieri che indossano logore divise in compagnia di soldati – aguzzini che latrano ordini come cani feroci. Nel mio capannone siamo soltanto ragazzi sopra i quindici anni, ci fanno lavorare come bestie, il cibo è scarso, torniamo a dormire distrutti, non riusciamo neppure a parlare. Sguardi senza espressione, poche frasi mormorate tra una lacrima e l’altra, giorni che replicano un dolore infinito. Attendo con rassegnazione l’alba di un nuovo giorno, contando gli amici che restano, osservando le ossa fragili dei compagni e vedendo nei loro corpi magri, sofferenti, l’immagine del mio fisico distrutto. Non so come si chiami questo orribile posto dove mi hanno condotto. Non ho fatto in tempo a leggere il nome della stazione quando il treno si è fermato. So solo che assomiglia tanto all’inferno di cui parlava la professoressa a scuola, durante l’ora di religione, un inferno che non avrei voluto vedere riflesso negli occhi di compagni e aguzzini. Ogni giorno qualcuno non rientra al dormitorio, mi ritrovo a contare un compagno in meno, distrutto dalla fame, dal dolore, da un lavoro che non riusciva a sopportare. Mi sento sempre più solo, mentre osservo un’orribile, gigantesca ciminiera che troneggia nel bel mezzo del campo, sentinella del dolore, gendarme d’una notte infinita. Spengo la luce e ripongo il quaderno. Domani non si lavora, per fortuna. Domani è giorno di riposo perché ci porteranno nel capannone centrale, vicino all’immensa ciminiera. Il capo delle guardie ci ha detto che dobbiamo fare una doccia tutti insieme, dopo tanti giorni di lavoro. Ne ho proprio bisogno. In mezzo a tanta sofferenza anche un bagno caldo può alleviare il dolore…