DI VINCENZO G. PALIOTTI
4 Maggio 1949 Superga. Il destino ci portava via una squadra leggendaria, una squadra che aveva raccolto solo affetto ed ammirazione. “Il Grande Torino non c’è più”, annunciavano le agenzie di stampa, “l’aereo che riportava a Torino i granata da un’amichevole in Portogallo, si è schiantato sul terrapieno della Basilica di Superga. Nessun superstite”.
Quando il calcio era ancora uno sport, quando ancora non divideva, non suscitava odio, rancore, razzismo e i protagonisti onoravano il concetto di sport popolare, cioè di tutti, il Grande Torino era l’esempio da seguire.
Ammirati da tutti, anche dagli avversari, gli uomini in maglia granata si poteva veramente considerarli come noi, vicini a noi che abbiamo tutti dato calci ad un pallone immaginando di essere il portiere Bagicalupo o il capitano Valentino Mazzola.
Un ricordo indelebile di un calcio “romantico” ma vero. Non come oggi che registriamo ben altro, impiego smodato di capitali ingenti, compensi milionari che creano solo falsi miti, un mondo asservito, come atri contesti, al profitto e preda di chi vuole strumentalizzarlo, utilizzarlo per dimostrare una superiorità economica, a volte fittizia, artefatta e ben lontana dallo spirito decoubertiano di quei tempi.
Se a distanza di tanti anni dalla tragedia di Superga questa leggenda ancora vive intorno a quella squadra, a quegli uomini, sarebbe giusto chiedersi quali e quanti sbagli sono stati fatti da allora per assistere oggi, quasi rassegnati, al degrado tecnico e soprattutto sociale di questo sport che è nato come sport popolare e che oggi è visto solo come un prodotto di consumo che deve fruttare, deve lucrare ad ogni costo giustificando il tutto in una frase vuota: “il calcio è cambiato”. Non è vero, sono cambiati gli obiettivi, i principi ma il calcio è sempre lo stesso, 22 uomini che si affrontano per superarsi, come è stato sempre così nello sport.
La differenza la fanno gli uomini che oggi, nascondendosi dietro a quella frase (il calcio è cambiato) perdono volutamente di vista i principi che ancora esistono in chi pratica questo sport, sostituendoli con espedienti di ogni genere per prevalere, compreso il disprezzo verso chi, secondo loro, non è degno di misurarsi con loro (v/Superlega). Del Torino si ricorda anche il gruppo di dirigenti che lo gestiva come si trattasse di una famiglia, nel rispetto dello sport e degli avversari. Dal Presidente Ferruccio Novo che costruì con paziente amore il gruppo che vinse tanto, al tecnico Egri Erbstein, per citare i massimi protagonisti di quella stagione vittoriosa.
Quanta distanza si è creata tra l’oggi e quella grande squadra, da quel modo di onorare lo sport, da quella leggenda che vive e vivrà per sempre.
Il Grande Torino vinceva ed era amato ed ammirato dagli avversari, oggi chi vince è odiato proprio in virtù di quel disprezzo che si ha per i più deboli, per sentirsi superiori, per distanziarsi dalla massa, ma questo sport è nato per la massa e quindi vive grazie alla massa.
E, se sopravvive a tutte le “brutture” del nostro tempo è anche grazie a questi ragazzi, che lasciando questa vita hanno lasciato un messaggio di civiltà, di etica sportiva che è un tesoro che dovrebbe essere tenuto da conto gelosamente. La loro morte, così improvvisa, quando ancora nel fiore della vita, li ha resi immortali e con loro quel modo di concepire il calcio che resiste ancora e rimane popolare.
Grazie ragazzi, grazie Grande Torino.